Category Archives: Cose che ho scritto

Questa sezione raccoglie i testi scritti da me. La maggior parlano di graffiti writing.

Introduzione a Il Mondo Nuovo di Stefano Mirti

Ho scritto quest’introduzione al libro di Stefano Mirti, Il mondo nuovo. Guida tascabile #design #socialmedia #alterazioni

“Un essere umano deve essere in grado di cambiare un pannolino, pianificare un’invasione, macellare un maiale, guidare una nave, progettare un edificio, scrivere un sonetto, tenere la contabilità, costruire un muro, aggiustare un osso rotto, confortare i moribondi, prendere ordini, dare ordini, collaborare, agire da solo, risolvere equazioni, analizzare un problema nuovo, raccogliere il letame, programmare un computer, cucinare un pasto saporito, battersi con efficienza, morire valorosamente. La specializzazione va bene per gli insetti.” (Robert A. Heinlein)

Il mio lavoro consiste nell’aiutare le aziende a comunicare online.

Certamente esistono professioni più sexy: l’astronauta, il broker, l’architetto.
Tuttavia, si tratta di un’attività curiosa e per certi versi addirittura interessante.

Prima di tutto perchè è un’attività che, fino a pochi anni fa, non esisteva. Vi faccio un esempio: buona parte del mio lavoro passa da Twitter, un social network che ha aperto solo nel 2006 (e ci ha messo qualche anno per diffondersi).

Nel mio settore, l’esperto più anziano lavora da sette anni (un altro modo per dire che non esistono esperti). Per contro, le piattaforme su cui lavoro cambiano così velocemente che, anche se esistessero esperti, dopo pochi mesi le loro conoscenze sarebbero obsolete.

La comunicazione online è un tema volatile, etereo, cangiante: costringe a un continuo aggiornamento e a un discreto lavorìo mentale. Non si tratta di argomenti che si possono imparare, una volta per tutte, in un libro o all’università: per riuscire a far funzionare le cose sono molto più importanti il ragionamento e il buon senso.

Tutti i giorni mi chiedo a cosa serva la mia consulenza: perché i miei clienti non riescono a farlo da soli?

A scuola, nessuno ci insegna a essere curiosi nè a creare delle relazioni. Ma in questo momento queste sono due capacità fondamentali per sopravvivere in un contesto che cambia molto velocemente.

In un periodo di transizione, quale quello attuale, in cui gli strumenti per comunicare cambiano più velocemente degli utilizzatori finali, le aziende fanno fatica ad adattarsi pur intuendone le potenzialità.

La colpa non può essere dei social network: sono pensati in modo da poter essere utilizzati da un quattordicenne (e di fatti i quattordicenni ne usano in abbondanza, ma non usano gli stessi dei loro genitori). Non si tratta nemmeno di una questione anagrafica: l’inettitudine verso il digitale è diffusa a prescindere dall’età.

La mia curiosità sui social-scettici e i tecno-impediti mi ha portato a una più attenta analisi: sono ovunque. Raffinati redattori di importanti case editrici che rifiutano di avere un account su Facebook. Direttori marketing che hanno paura dei commenti negativi sui prodotti delle loro aziende. Curatori museali che bollano il web, tout court, come una perdita di tempo. Stimati professionisti che rifiutano di usare internet per tenersi aggiornati. Senza contare i candidati stagisti che ammettono candidamente di non leggere blog, di non possedere un profilo su Linkedin, di non avere internet a casa.

Da cosa dipende questa pigrizia mentale, questo neo-luddismo che impedisce alle persone di sfruttare questi strumenti? Temo che al principio di tutto ci sia la scuola, intesa come luogo di formazione e apprendimento.

La formazione accademica ci insegna ad approfondire un singolo argomento in modo verticale e specialistico, fino a diventarne esperti. Temo che, da solo, questo approccio sia obsoleto e dannoso. Quello di cui abbiamo bisogno è essere capaci di cercare e saper tracciare delle connessioni. Fare collegamenti critici tra gli argomenti o collegamenti tra le persone. Non c’è differenza tra virtuale e reale: i legami che stringiamo online non sono diversi da quelli “In Real Life”.

Immagino che questi concetti possano sembrare banali. Io ci ho messo molto a capirli, perchè il mondo in cui sono cresciuto non era così.

Quando sono nato io, internet non c’era. Ma per fortuna quelli come me sono in estinzione.

Conservare il degrado

La prima volta che ho visto la serie di fotografie che Margherita Lazzati ha scattato al pezzo di Alex Martinez, a Londra, ho pensato: è pazza. Nemmeno i writer sono così ossessionati dal documentare il proprio lavoro, nonostante la natura effimera delle loro produzioni.

I graffiti sui treni durano raramente più di tre giorni: sono destinati a consumarsi, estinguersi, essere cancellati o coperti da uno strato successivo di spray. La documentazione fotografica, spesso, è l’unica testimonianza dell’esistenza di un pezzo. Chi fa graffiti sulle metropolitane sa di dipingere solo per lo scatto finale: capita di frequente, infatti, che i treni dipinti non escano nemmeno dal deposito, destinati a una subitanea cancellazione, in nome del decoro.

La documentazione dei graffiti diventa ogni giorno più importante e chi dipinge lo sa: la qualità delle riviste dedicate al fenomeno è in continua ascesa e le fotografie scattate dai writer hanno raggiunto livelli incredibili. Dagli scatti di Gusmano Cesaretti (www.gusmanocesaretti.com/hompagegallery/slideshow.html) al writing cholo di Los Angeles nel 1975, ai reportage di Alex Fakso (www.heavymetalbook.com/) dei treni e metropolitane italiane degli anni 2000, fino alle foto di JR (jr-art.net/) esposte in questi giorni nella mostra del World Press Photo è passato molto tempo: tecnica e qualità delle fotografie sono cresciute a dismisura. È l’indice di un’attenzione crescente, da parte dei writer, rispetto alla fotografia.

Tuttavia, la fotografia è l’atto conclusivo del pezzo, ne immortala la conclusione e in qualche modo segna l’inizio del suo degrado. Viene scattata al momento o, al più tardi, la mattina successiva quando il treno entra in stazione.

È l’opposto rispetto al lavoro di Margherita Lazzati: la sua ossessione maniacale per il pezzo di Alex Martinez, che l’ha portata a fotografarlo continuamente per quattro anni, mi ricorda l’ossessione che alcuni writer hanno per il proprio nome, che li porta a scriverlo ovunque e comunque. Un’ossessione che è strettamente collegata con la martellante ripetitività della comunicazione pubblicitaria, che iniziava a farsi presante e onnipresente proprio negli anni in cui il writing è nato.

Sto pensando alla serialità writer come Dumbo (che ha scritto la propria tag dappertutto a Milano, in stampatello), non certo come Alex Martinez: se chi fa graffiti si posiziona su un ideale continuum che va dal totale vandalismo alla pura arte, certamente Dumbo si colloca verso il vandalismo (e l’autoreferenzialità, la ripetitività, la non-arte), mentre Martinez cerca il riconoscimento da parte del mondo delle gallerie.

Come le tag di Dumbo sono un’ossessione martellante per le vie di Milano, le fotografie di Margherita Lazzati hanno campionato in modo ossessivo lo stessa dipinto, per tutta la sua vita di opera, fino alla cancellazione finale.

Certe opere, sostiene il professor Antonio Rava (docente di restauro presso l’Accademia Albertina) sono destinate a distruggersi e devono essere lasciate al loro destino. La loro distruzione fa parte dello statuto originario.

Se pensiamo a un graffito come un’opera d’arte (un’ipotesi che farà arricciare il naso a molti), l’unica forma di conservazione è proprio quella che ha tentato Margherita Lazzati: la documentazione continua della decadenza dell’oggetto artistico fino alla sua completa distruzione. In questo senso, la sequenza fotografica è decisamente meglio dell’opera stessa (una copia di un ritratto di Beckett che, a dirla tutta, sembra ingrassato di cinque chili rispetto all’originale).

Documentare il passaggio del tempo ci rende la misura dell’inevitabilità degli eventi: è una metafora della vita, come il video di Sam Taylor-Wood (Still life, 2001) in cui una caravaggesca cesta di frutta ammuffisce, inesorabilmente, in un time lapse accelerato di tre minuti e mezzo. Una condanna a cui i graffiti non si possono sottrarre e dalla quale nulla li difende. L’amministrazione comunale di Milano ha spazzato via, con un colpo di spugna grigia, vent’anni di storia del writing milanese, cancellando tutte le storiche hall of fame della città. E dando vita a un fenomeno di selezione avversa: per ridurre le scrittacce (che non piacciono al cittadino) il comune ha cancellato i graffiti belli (che piacevano al cittadino). Al posto delle hall of fame, ora, ci sono solo tag e throw up. Grazie sindaco!

E se le sporadiche e poco sensate iniziative che hanno mirato al restauro e alla salvaguardia dei graffiti (come il restauro del muro di Bros (http://archiviostorico.corriere.it/2008/febbraio/24/Graffiti_arte_cancellati_via_restauri_co_7_080224020.shtml) in via Olona, a Milano) grazie al cielo hanno avuto vita breve, i lavori di documentazione seria di un singolo muro sono stati veramente pochi.

Graffiti Archaeology è una di queste analisi diacroniche, un meraviglioso time-lapse collage che documenta diverse hall of fame statunitensi dai Novanta ad oggi (http://www.otherthings.com/grafarc/).

Un’altro esempio, stavolta nell’area della street art, è “self destructing sticker” dell’olandese Erosie, in cui il progressivo scoloramento di un’adesivo rende vera la dichiarazione dell’adesivo: “this sticker will self destruct” (http://www.erosie.net/index.php?/2004/self-destructing-sticker/).

La serie di Margherita Lazzati non ha il potere di fermare il tempo. Ne scandisce il passaggio e racconta una realtà spietata e spesso ignorata: quando un pezzo è concluso, non è più di proprietà del writer. È alla mercè dei fotografi, degli altri writer, delle intemperie e di chi cancella i graffiti. I writer consegnano le loro opere all’azione incontrollata degli agenti atmosferici e della società, con determinata rassegnazione e consapevolezza.

Per fortuna, ci sarà sempre un’altra generazione di writer, pronta a stendere un altro strato di vernice.

 

Scrivere il nome, tra inclusione e repressione

Ogni volta che si parla di graffiti, gli storici dell’arte partono da quelli preistorici con la caccia al bisonte, dalla grotta di Lascaux e dalle incisioni rupestri della Val Camonica. È un dramma: i graffiti che conosco io non hanno nulla a che fare con questi. L’ambiguità lessicale mi costringe a iniziare, ogni volta, da una questione terminologica che, colpevolmente, restituisce una realtà distorta.

 

Il termine graffiti, ci dice il dizionario, deriverebbe in qualche modo dal termine greco per “scalfire, incavare, disegnare”, graphein. È un termine perfettamente azzeccato, dunque, per individuare le incisioni rupestri e anche i disegni dei carcerati, che costituiscono l’oggetto di questo volume.

I graffiti insomma, fino agli anni Settanta, sono solo ed esclusivamente le pitture murali, più o meno incise o graffiate, ricondotte raramente a un intento artistico. Piuttosto, collegate a un intento divinatorio, propiziatorio, o di semplice comunicazione.

 

C’è stato un momento in cui il termine “graffiti” è passato a indicare anche le scritte sui muri, fatte a pennarello o a spray e di seguito anche i disegni che, negli anni Settanta, iniziavano ad apparire sulla metropolitana di New York.

Il New York Times rileva la presenza di una nuova sottocultura nel 1971, quando dedica un articolo e una intervista a Taki 183, un giovane di origine greca che aveva iniziato a scrivere il proprio nome dappertutto, con dei pennarelli, stimolando altri ragazzi a fare lo stesso. Taki, semplicemente, non sapeva spiegare il perchè lo facesse: doveva farlo, e basta.

Il New York Times chiama le firme di Taki “graffiti”, probabilmente in modo dispregiativo, per accostarle al disordine delle incisioni rupestri.

 

I writer, d’altra parte, non usano mai la parola “graffiti”: chiamano se stessi semplicemente “writer”, e descrivono la loro attività come “writing” o semplicemente “scrivere il proprio nome”.

La differenza terminologica è importante solo per un motivo: evidenzia un approccio totalmente diverso.

Non artistico, o almeno non in senso intenzionale. Non propiziatorio, a differenza dei bisonti nelle caverne. Non più sporadico, come nel caso delle scritte vernacolari che sono sempre esistite, sui muri di tutte le città, da Pompei a Parigi.

Si tratta di un approccio totalmente focalizzato sul culto del nome, ripetitivo, seriale, e a-funzionale (non diretto a comunicare nessun messaggio specifico). Taki dice: “devo farlo, e basta”.

 

Ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale nell’approccio alla scrittura sui muri: talmente diverso da tutte le manifestazioni precedenti da meritare forse un’analisi fondata su altri presupposti.

 

Naturalmente, questo approccio diverso non ci fu: mutuare il termine generico “graffiti” dalla storia dell’arte equivaleva a generalizzare, a evitare l’inquadramento preciso di un fenomeno poco comprensibile, ma già terribilmente dilagante, se è vero che la Transit Authorithy di New York spendeva, già nel 71, 300.000 dollari per rimuovere tags, scritte varie e oscenità dalle stazioni della metropolitana.

 

È per questo che evito accuratamente, ove possibile, di utilizzare il termine graffiti per riferirmi al writing: è inaccurato e genera confusione.

Una confusione che, naturalmente, fa gioco e fa piacere a chi vuole fare di tutta l’erba un fascio, e pensa che considerare nello stesso novero tag, dichiarazioni d’amore, apologie politiche e calcistiche, liste della spesa paleolitiche per la caccia al bisonte possa essere utile a qualcosa.

 

Questa è la mia area di studio e di intervento: il writing.

Come distinguere una tag o un “pezzo” (un disegno realizzato da un writer) da una scritta di altro tipo? È molto semplice. I writer scrivono il loro nome (o meglio, il loro pseudonimo: trattandosi di un’attività illegale, sarebbe improvvido utilizzare il proprio nome anagrafico).

Si tratta di un’attività piuttosto semplice: scegliere uno pseudonimo, armarsi di pennarelli o di pittura spray, e scriverlo il più possibile, meglio degli altri writer, con più stile, più in grande e possibilmente in luoghi più rischiosi (treni, metropolitane, autostrade, cavalcavia e in genere qualunque superficie verticale scrivibile).

Di conseguenza, le scritte dei writer sono seriali, stilizzate ma soprattutto sono delle firme. Dalla scritta più piccola, tracciata a un colore e con un pennarello, agli immensi pezzi che capita di vedere sui treni, il tratto comune è uno solo: l’ossessiva e martellante ripetizione di un nome.

 

Nel 2010, è possibile riconoscere il segno dei writer in tutte le maggiori città del mondo: tutto è iniziato da Philadelphia e New York, ma già all’inizio degli anni Ottanta il fenomeno si era diffuso a Londra, a Parigi, Amsterdam e Milano. I veicoli della diffusione sono stati molteplici, da libri come Subway Art a documentari come Style Wars e clip musicali come “Buffalo Gals” di Malcolm Mac Laren.

Il writing è diventato una incontrollabile piaga planetaria, almeno per le istituzioni che cercano di sradicarlo, spesso con risultati risibili.

 

La difficoltà di inquadrare il fenomeno (e la commistione terminologica ne è un segnale) gioca un ruolo fondamentale sia per le politiche di repressione sia per quanto riguarda la sua (presunta) accettazione da parte del sistema artistico preesistente. In molti casi, i writer non hanno un intento artistico: il loro obiettivo è semplicemente la competizione con gli altri writer, per la quantità o la qualità delle firme che riescono a piazzare.

L’aspetto estetico dei graffiti è considerato, da molti writer, poco più che una scoria, un residuo, rispetto all’azione e alla competizione.

D’altra parte, lo stesso aspetto estetico ha sollevato prestissimo conseguenze di natura commerciale ed artistica, causando l’ingresso precoce dei writer nel sistema dell’arte: la prima occasione, probabilmente, è del 15 settembre 1973, quando un gruppo costituito da un centinaio di writer (che comprendeva tra gli altri Phase 2, Mico, Coco 144, Pistol, Flint 707, Bama, Snake e Stich), guidati dal sociologo Hugo Martinez, tenne la sua prima mostra collettiva alla Razor Gallery, promossa dalla New York Foundation of Arts. Tutti i lavori della UGA (United Graffiti Artists, così si chiamava il gruppo) furono venduti tra i trecento e i tremila dollari e la mostra fu recensita in modo favorevole dalla critica e dalla stampa specializzata, che se ne occupò fino al 1975, per poi abbandonare, almeno temporaneamente, il fenomeno.

 

I writer, gli ex-writer, i graffitisti (come haring e basquiat, che in realtà hanno condiviso poco con il movimento), gli artisti provenienti dal writing hanno quindi formato un unicum estremamente eterogeneo e difficilmente comprensibile, sicuramente bivalente.

Da un lato le frange più estreme del movimento, certe che l’illegalità e la competizione sul nome fossero parti essenziali al loro operato, spesso disinteressate o addirittura ostili rispetto ai criteri e alle politiche del mercato dell’arte, sicuramente autoreferenziali: “it’s for us, I don’t care about them”, dice Skeme nel documentario Style Wars.

Dall’altra, chi ha iniziato a vedersi come un “graffiti artist” più che come un “graffiti writer”, dando vita a una concezione del fenomeno fortemente deviata dalle influenze di tipo commerciale.

 

“it’s for us”: è per noi. in due parole, la sintesi di un movimento totalmente concentrato verso l’interno, criptico, autoreferenziale, in cui tutto è rivolto solo ed esclusivamente agli altri writer. La calligrafia è incomprensibile, le lettere sono ostiche, le identità sono celate dagli pseudonmi, i motivi per cui si dipinge non sono espressi chiaramente. Anzi, non sono espressi affatto. O, secondo alcuni, addirittura non ci sono: i writer non sanno perchè scrivono, lo fanno e basta.

Parallelamente, questa esigenza di chiusura all’esterno costituisce il paradigma di un’inclusione: se sei un writer, sei dentro, sei dei nostri, capisci e sei in grado di valutare chi è il king, quello che dipinge meglio e di più.

 

La società civile ha risposto a questo movimento, la cui manifestazione è prevalentemente illegale, con movimenti di segno opposto: la repressione e l’eliminazione delle tracce.

Tracce spontanee, che descrivono forse il tempo in cui viviamo, così come i graffiti di Palazzo Steri descrivono l’universo degli incarcerati dell’Inquisizione.

Certamente, la proliferazione incontrollata di una giungla di segni nello spazio pubblico determina un clima di incertezza, di perdita di controllo. Ancora di più se, abituati a segni che sono funzionali, alla reclàme, alla grafica informativa, ci troviamo davanti a firme apparentemente prive di un senso. E, certamente, prive di un intento commerciale.

 

A giudicare dallo stato di molte città italiane, la strategia di repressione e cancellazione ha dato frutti modesti: le più grandi città italiane sono devastate, senza possibilità di recupero, da una fitta trama di tag, throw up, pezzi.

Tuttavia, le spese per la cancellazione e la rimozione dei graffiti sono cospicue: Trenitalia dichiara di spendere circa 3 milioni di euro all’anno per pulire i treni, una cifra simile a quella che spendono le Ferrovie Nord di Milano e ATM (2 milioni di euro a testa).

Il comune di Genova spende poco, solo 90mila euro l’anno per pulire i graffiti, e vanterebbe un rapporto amichevole coi writer. In effetti è poca cosa, soprattutto se paragonati ai 25 milioni di euro di Milano (2009), tra pulizia e campagne di sensibilizzazione. Una bella cifra, che finiva in gran parte nelle casse di AMSA, l’azienda che gestisce sia le operazioni di pulizia che le affissioni pubblicitarie anti graffiti.

Secondo l’associazione dei costruttori edili, i maggiori Comuni italiani spenderebbero circa 25 milioni di euro l’ anno per ripulire le facciate dei palazzi e sistemare le aree pubbliche vandalizzate.

Si tratta di un problema di priorità e di agenda setting. È chiaro che, visti i risultati, i 25 milioni di euro che i nostri Comuni erogano, ogni anno, per seppellire le tracce del writing sembrano – quanto meno – spesi male. La città di Milano, con un colpo di spugna, ha deciso di cancellare tutte le storiche Hall of Fame semi-legali che resistevano da vent’anni, indisturbate e anzi benvolute dalle persone comuni. Cancellando, in un colpo, una importante memoria storica del writing italiano e producendo un danno storico incalcolabile.

Non dico che i graffiti vadano conservati: sono effimeri e sono fatti per scomparire.

Per chi li studia però, la cancellazione dei graffiti è come mandare un bulldozer in un museo archeologico: costoso e dannoso.

Bovisa in Linea – Reclaim your line

Bovisa in Linea – reclaim your line
Testo contenuto nel libro Progetto Bovisa, in uscita per il Politecnico di Milano

Il rapporto tra i writer e le istituzioni a Milano ha attraversato diverse fasi, spesso controverse e contradditorie: sebbene il collegamento tra la capitale italiana dell’advertising e il marketing di se stessi operato dai writer sia lampante, raramente le istituzioni comunali hanno cercato di approfondire i modi e l’evoluzione di questo fenomeno. I graffiti sono stati per anni uno spauracchio, una patologia difficile da debellare, un nemico immaginario che spunta dal cappello magico in tempi di campagna elettorale.
In molti riescono a lucrare sull’atto vandalico: fornitori di pennarelli e colori, pulitori, imbianchini, produttori di vernici protettive e vigilantes assortiti, per non fare menzione del mercato dell’arte e del merchandising, in una fase di piena maturità. La gran parte della cittadinanza, invece, li soffre in modo passivo, o almeno così vuol dare a intendere la stampa: in realtà, l’unica indagine sulla percezione dei graffiti, realizzata da Eurispes (>>), dimostra come una percentuale importante del campione intervistato (soprattutto i giovani) apprezzi e ami i muri dipinti.
Il fatto che siano difficili da capire è una giustificazione tanto diffusa quanto priva di fondamento. Certo, è difficile interpretare le intricate lettere del wildstyle, ma non più che interpretare un codice del Cinquecento. E le lettere dei writer più presenti in città sono spesso leggibilissime, frutto questo di una programmata evoluzione dello stile: l’uso dello stampatello consente di diventare famosi anche tra i non addetti, mediante la riproduzione del marchio fino alla saturazione dello spazio cognitivo. La pubblicità, alfine, ha insegnato qualcosa ai nostri ragazzi!
Probabilmente, ciò che è veramente difficile comprendere dei graffiti è l’intento: l’intenzione artistica è il più delle volte assente, quantomeno nel bombing da strada. E in ogni caso, l’arte da sola difficilmente giustifica i rischi che un writer mediamente corre (stiamo parlando di multe, denunce penali e, in casi estremi, anche qualche proiettile vagante).
Nel mix di obiettivi di un writer giocano un ruolo importante quanto vario la fama, il riconoscimento all’interno di una cerchia di pari, la ricerca di una superiorità assoluta (lo status di king) valutata secondo alcuni parametri concretissimi e riconoscibili – lo stile, la quantità, le dimensioni, il rischio. È una sfida, una gara, ciò che il documentarista Henry Chalfant ha giustamente chiamato Style Wars, già nel 1983.
Risulterà evidente da queste righe che il pubblico d’elezione dei writer sono gli altri writer. La cerchia è autoreferenziale, un circuito chiuso di patiti delle lettere in estrema competizione per lo spazio e per lo stile.
Va da sé che il coefficiente di rischio sia uno dei fattori dominanti: l’impatto di un pezzo è dato dalla sua posizione, lo straniamento provocato da un graffito non è dato solo dal lettering, quanto dall’illegalità del pezzo. Quella macchia di colore, lì, su quel treno o lungo quella linea ferroviaria, non dovrebbe esserci e invece c’è: testimonia un’insensatezza spontanea, un gesto gratuito di abbellimentoabbruttimento che coinvolge tutti ma non chiede a nessuno, né permessi né risorse.
È questo il motivo per cui, per molti writer, i muri legali hanno poco senso.
Gli spazi concessi ospitano graffiti senza punta, senza verve: ordinati e preparati, anziché inattesi e prepotenti, perdono gran parte della loro efficacia, sono nulla in confronto a un treno o a una metropolitana dipinta illegalmente.
Eppure, i motivi per concedere comunque degli spazi ci sono e sono tanti. Bovisa in Linea vuole essere un tributo a chi quei muri li ha vissuti, di notte, con sudore, rischio e fatica. Un omaggio a chi è riuscito a dare il meglio su ogni superficie – liscia o gibbosa, concava e convessa, senza luce e con i treni che passano. E insieme vuole essere un invito a elevare ancora di più il livello qualitativo, a dedicare più tempo e passione – per una volta con il supporto costruttivo di un’istituzione come la Triennale – a una disciplina che può dare dei risultati incredibili a livello estetico e ha avuto un’influenza tanto ampia quanto sottovalutata sulla grafica che ci circonda.
I muri legali non servono ai writer (questo è evidente: se li prendono da soli, come dimostra la linea Cadorna-Bovisa, completamente dipinta già prima dell’evento), servono a tutti gli altri: sono utili per i giornalisti, costretti in qualche modo a confrontarsi con un’anomalia e ad approfondire l’argomento, servono alla gente comune, spinta a notare la nuova veste delle linea ferroviaria e a interrogarsi sul senso di ciò che succede e infine serve ai ragazzi milanesi, che potranno godere di opere di qualità eccellente nonostante le devastanti campagne censorie delle scorse amministrazioni comunali, che hanno fatto tabula rasa di due decadi di storia del writing a Milano.
La speranza è che l’evento faccia riflettere sul dirompente potere creativo che è collegato a questo fenomeno (più di cento ragazzi, che collaborano per realizzare un unico enorme intervento): una forza d’ingegno il più delle volte repressa e soffocata dalle istituzioni, e che qui per la prima volta viene avallata e stimolata.
L’inefficacia delle campagne repressive dovrebbe essere evidente, le esperienze internazionali lo dimostrano. New York, la Mecca dei graffiti, ha iniziato la lotta al writing nel 1978 e ancora oggi spende 5 milioni di dollari all’anno per pulire i graffiti e mantenere un’apposita squadra di 68 agenti: nonostante questo, la metropolitana subisce circa 4.000 attacchi vandalici all’anno.
A Parigi le misure anti-graffiti sono arrivate addirittura a intaccare la libertà di stampa, impedendo la pubblicazione di alcune riviste specializzate. I graffiti cancellati dai muri della città riappaiono sui marciapiedi, oppure al di sopra dei quattro metri di altezza, o sui mezzi di trasporto privati.
A Berlino, anche dopo la demenziale decisione di perseguire i writer con gli elicotteri, il fenomeno è in crescita e raggiunge livelli di vandalismo e violenza decisamente elevati.
Anche le misure varate, a più riprese, dal Comune di Milano sono state vane (basti ricordare la “taglia sui writer” introdotta da Albertini nel ’98) e i risultati non sono quelli sperati, si direbbe guardando le pareti della città. Né credo che una vandal squad formata da poliziotti killer, sulla scorta di quanto è avvenuto in altre città lombarde, possa risolvere il “problema” – politiche restrittive e persecutorie, se mai, riducono il tempo a disposizione per realizzare l’opera e il risultato naturale è un peggioramento del livello qualitativo medio.
Bovisa in Linea è l’inizio di un dialogo tra le istituzioni e la città, e in particolare con quella parte di città sommersa ma creativa, difficile da raggiungere ma iperattiva. Difficilmente servirà a limitare un’attitudine al vandalismo perpetuata ormai da trent’anni, ma la speranza è che si possa aumentare il livello di consapevolezza, da entrambi i lati. Da un lato, Milano non è New York: i luoghi sensibili sono moltissimi (siti archeologici, architettonici, artistici) e i più capiscono perfettamente l’insensatezza di firmare chiese e monumenti. D’altro canto, il writing fa ormai parte del paesaggio urbano, ignorarlo e cercare di debellarlo completamente è un’impresa titanica e poco sensata, irrispettosa della naturale evoluzione della città. Lamentarsi dell’erosione dello spazio pubblico da parte della pubblicità è fin troppo facile: ci si limiterà a osservare che le metropoli moderne sono sempre state sporche, inquinate e che la sporcizia rappresentata dalle scritte sui muri non è certo la peggiore (soprattutto se paragonata ad altre forme di inquinamento visivo – se non di inquinamento tout court). La selva di firme e bombing ci sembra, al contrario, un fortissimo indicatore di un’attività intellettuale, per quanto vandalica e marginale, e di una disposizione a conquistare degli spazi, di un’aggressività positiva coniugata a una ricerca stilistica che va stimolata e lodata – non soffocata.
Il fatto che l’attuale amministrazione comunale abbia deciso di dedicare dello spazio e delle risorse a questo tipo di energie ci pare sintomo di un’inedita attenzione verso la creatività spontanea e un primo passo per valorizzare il fenomeno nel contesto di una strategia di apertura e di analisi, anziché di chiusura e di cieca repressione.
Speriamo che Milano smetta di aspirare a uno stato di pulizia che è solamente superficiale e accetti di essere una città sporca, perché per tutte le attività creative e lavorative è necessario, in qualche modo, sporcarsi le mani.

Quello che penso io del writing, aggiornato a sabato 21 marzo 2009 alle cinque del pomeriggio

Testo apparso in A. Barbieri e al., Come ti viene in mente di fare i graffiti, stampato in proprio, 2009

Quello che penso io del writing, aggiornato a sabato 21 marzo 2009 alle cinque del pomeriggio

I graffiti esistono da quarant’anni.
I writer non li chiamano nemmeno graffiti: qui da noi, in Italia, li si chiama pezzi e la pratica di scrivere sui muri è chiamata semplicemente writing (dal termine inglese scrivere, naturalmente).
Eppure, nonostante i graffiti esistano da quarant’anni (sui libri d’arte, in tv, sugli zainetti, sul dentifricio e addirittura nel frigo, quasi) le persone continuano a chiedere da dove vengono i graffiti, perché sono così brutti, come mai sono ovunque e cosa c’è dietro.
La risposta è semplice: vengono dagli States, come Beautiful, la Coca Cola e Terminator. Ma, a differenza di Beautiful e Terminator, sembrano piuttosto coriacei: non hanno intenzione di scomparire nel giro di pochi anni. La leggenda dice che i primi writer fossero di Philadelphia e che avessero iniziato a scrivere il proprio nome alla fine degli anni Sessanta, in un contesto urbano in cui la pubblicità tendeva a dissolvere lo spazio pubblico e a comprimere l’identità individuale. New York ne rivendica la paternità con prepotenza, nonostante, nel 2006, il municipio spendesse più di cinque milioni di dollari l’anno per combattere il fenomeno.
Effettivamente il writing, come lo conosciamo oggi, si è sviluppato sui treni della grande mela, dove i nomi dei ragazzi delle periferie sono apparsi e si sono diffusi con un vigore inarrestabile, sempre più grandi, sempre più colorati, per passare a invadere i muri, i cavalcavia, gli autobus della città e poi di tutto il mondo.
Più che una tecnica (l’utilizzo dello spray) e uno stile, ciò che ha contagiato il pianeta è la potenza di un’idea: scrivere il proprio nome. È la base ed è alla portata di tutti: è la prima cosa che impariamo a scrivere. Simboleggia noi stessi. Scriverlo in giro significa “sono stato qui”: in una città enorme può essere un segno di vita importantissimo. È un’idea semplice e potentissima: i graffiti hanno cambiato forma mille volte, ma l’idea di base rimane ferma e inattaccabile – finchè ci saranno metropoli e ci saranno adolescenti, ci sarà qualcuno che scrive il suo nome, da Tokio a Rio a Bassano del Grappa.
Se il nome ha dato il via al gioco, lo stile ha innescato la bomba della competizione: qualcuno ha detto che il writing è una guerra di stili, per chi scrive meglio, con una calligrafia migliore, con una colorazione più coerente, nel posto più inaccessibile, con gli strumenti più strani.

Free* painting

Testo apparso sul catalogo Only For Fame (Collective Exhibition),pubblicato in proprio, Osnago (Mi), 2008.
[Grazie a Simona Bartolena, Sara Allevi, Michele Brivio e 247design]

Free* painting
* In cui “free” significa “gratis”, come in “free beer”.

Le firme, le scritte, i graffiti sono così onnipresenti sui muri delle metropoli contemporanee che sembra inutile scriverne e raccontarli per iscritto: un’attenta passeggiata in città sarebbe ben più istruttiva di qualunque testo.

Eppure, l’ostilità dei media e dei cittadini perbene, infuocati in una perenne guerra a favore di un monocromo grigio, spinge scrittori ed editori a sprecare pagine per inquadrare, descrivere, analizzare e incanalare un fenomeno di cui abbiamo una sola certezza: è assolutamente indelebile.

Dalla fine dei Sessanta sono stati innumerevoli i tentativi di soffocare il fenomeno, di disinfestare il singolo deposito ferroviario, imprigionare un writer, riportare una città alla gloriosa tinta unita neoclassica. Tentativi spesso vacui, incapaci di trattenere un’idea di fondo, che probabilmente è inarrestabile nel breve periodo. Continue reading

La strada ha i suoi metodi

Testo apparso in: Alessandro Mininno, Street Virus, Ready-made, Milano 2006 (pp.12-27) – Scarica il PDF dell’articolo completo

La strada è uno spazio vitale aperto a tutti, è lo spazio pubblico per eccellenza e sancisce il confine tra ciò che è di tutti e ciò che è relegato all’iniziativa e alla responsabilità privata, tra il comune e il personale. Che possa essere il luogo d’elezione per un’espressione artistica da molti a molti è una conseguenza diretta della sua natura: spesso gli artisti hanno scelto di interpretarla, modificarla o usarla come medium e la tendenza si è intensificata negli ultimi trent’anni.
La volontà di incidere il territorio non è certo una novità, possiamo trovarne testimonianze dalle caverne al monte Rushmore, fino alle installazioni di land art. Da Basquiat (in qualche modo imparentato con l’oggetto di questa trattazione) a Barbara Krueger (che per un periodo ha affisso le sue stampe per le vie di New York), la strada è diventata di volta in volta oggetto dell’agire artistico, veicolo per un messaggio o destinatario dello stesso.
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La strada, come galleria

Testo apparso in
– Elena Del Drago e al., Arte Contemporanea (Sette.Ambienti), Espresso – Electa, Milano 2008 (pag.163-173)
– Elena del Drago e al., Contemporanea. Arte dal 1950 ad oggi, Electa, Milano 2008

La strada, come galleria.

La strada è uno spazio vitale aperto a tutti, è lo spazio pubblico per eccellenza e sancisce il confine tra ciò che è di tutti e ciò che è relegato all’iniziativa e alla responsabilità privata, tra il comune e il personale. Che possa essere il luogo d’elezione per un’espressione artistica da molti a molti è una conseguenza diretta della sua natura: spesso gli artisti hanno scelto di interpretarla, modificarla o usarla come medium e la tendenza si è intensificata negli ultimi trent’anni.
La volontà di incidere il territorio non è certo una novità, possiamo trovarne testimonianze dalle caverne al monte Rushmore, fino alle installazioni di land art. Da Basquiat (in qualche modo imparentato con l’oggetto di questa trattazione) a Jenny Holzer e Barbara Krueger (che per un periodo ha affisso le sue stampe per le vie di New York), la strada è diventata di volta in volta oggetto dell’agire artistico, veicolo di un messaggio o destinatario dello stesso. Continue reading

Graffiti Writing, Haring, Basquiat

Testo apparso in
– Elena Del Drago e al., Arte Contemporanea (Quattro: Anni Ottanta), Electa, 2008 (pag.86-93)
– – Elena del Drago e al., Contemporanea. Arte dal 1950 ad oggi, Electa, Milano 2008

Graffiti writing, Haring, Basquiat

Non si tratta di una corrente artistica e non si chiamano nemmeno graffiti: nessun writer, tra l’inizio degli anni Settanta e la fine degli Ottanta, avrebbe definito la propria attività con quel termine (introdotto dai media con un senso spregiativo) e solo pochi, pochissimi manifestarono un vero intento artistico.
“Writers”, scrittori, era questa la definizione che usavano per loro stessi tutti quei ragazzi (erano centinaia) neri, portoricani o semplicemente newyorkesi che accettarono la sfida di scegliere un nome di fantasia (una firma, una tag) e scriverlo con uno stile migliore degli altri, tanto spesso da cambiare per sempre il volto della città. Continue reading

Danneggiamento di massa

Testo apparso su: Minameis (catalogo della mostra), Ready-Made, Milano 2006

Il graffiti writing è certamente una delle sottoculture più complesse e controverse del nostro secolo: nasce come manifestazione spontanea tra Philly e la New York degli anni Sessanta e Settanta e provoca presto interrogativi (ancora irrisolti) su quali siano i limiti tra la libertà d’espressione e i diritti di proprietà, sulle possibili intersezioni tra ambito artistico e azione illegale.
Il fenomeno è semplice, e nella sua semplicità quasi disarmante. Teenager, indefinibili dal punto di vista della provenienza e dell’estrazione sociale, iniziano a scrivere il proprio nome su ogni superficie che a questo scopo si presti (ma se non si presta, va bene lo stesso), ignorando bellamente le leggi e le regole del vivere civile e costumato. Continue reading