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Conservare il degrado

La prima volta che ho visto la serie di fotografie che Margherita Lazzati ha scattato al pezzo di Alex Martinez, a Londra, ho pensato: è pazza. Nemmeno i writer sono così ossessionati dal documentare il proprio lavoro, nonostante la natura effimera delle loro produzioni.

I graffiti sui treni durano raramente più di tre giorni: sono destinati a consumarsi, estinguersi, essere cancellati o coperti da uno strato successivo di spray. La documentazione fotografica, spesso, è l’unica testimonianza dell’esistenza di un pezzo. Chi fa graffiti sulle metropolitane sa di dipingere solo per lo scatto finale: capita di frequente, infatti, che i treni dipinti non escano nemmeno dal deposito, destinati a una subitanea cancellazione, in nome del decoro.

La documentazione dei graffiti diventa ogni giorno più importante e chi dipinge lo sa: la qualità delle riviste dedicate al fenomeno è in continua ascesa e le fotografie scattate dai writer hanno raggiunto livelli incredibili. Dagli scatti di Gusmano Cesaretti (www.gusmanocesaretti.com/hompagegallery/slideshow.html) al writing cholo di Los Angeles nel 1975, ai reportage di Alex Fakso (www.heavymetalbook.com/) dei treni e metropolitane italiane degli anni 2000, fino alle foto di JR (jr-art.net/) esposte in questi giorni nella mostra del World Press Photo è passato molto tempo: tecnica e qualità delle fotografie sono cresciute a dismisura. È l’indice di un’attenzione crescente, da parte dei writer, rispetto alla fotografia.

Tuttavia, la fotografia è l’atto conclusivo del pezzo, ne immortala la conclusione e in qualche modo segna l’inizio del suo degrado. Viene scattata al momento o, al più tardi, la mattina successiva quando il treno entra in stazione.

È l’opposto rispetto al lavoro di Margherita Lazzati: la sua ossessione maniacale per il pezzo di Alex Martinez, che l’ha portata a fotografarlo continuamente per quattro anni, mi ricorda l’ossessione che alcuni writer hanno per il proprio nome, che li porta a scriverlo ovunque e comunque. Un’ossessione che è strettamente collegata con la martellante ripetitività della comunicazione pubblicitaria, che iniziava a farsi presante e onnipresente proprio negli anni in cui il writing è nato.

Sto pensando alla serialità writer come Dumbo (che ha scritto la propria tag dappertutto a Milano, in stampatello), non certo come Alex Martinez: se chi fa graffiti si posiziona su un ideale continuum che va dal totale vandalismo alla pura arte, certamente Dumbo si colloca verso il vandalismo (e l’autoreferenzialità, la ripetitività, la non-arte), mentre Martinez cerca il riconoscimento da parte del mondo delle gallerie.

Come le tag di Dumbo sono un’ossessione martellante per le vie di Milano, le fotografie di Margherita Lazzati hanno campionato in modo ossessivo lo stessa dipinto, per tutta la sua vita di opera, fino alla cancellazione finale.

Certe opere, sostiene il professor Antonio Rava (docente di restauro presso l’Accademia Albertina) sono destinate a distruggersi e devono essere lasciate al loro destino. La loro distruzione fa parte dello statuto originario.

Se pensiamo a un graffito come un’opera d’arte (un’ipotesi che farà arricciare il naso a molti), l’unica forma di conservazione è proprio quella che ha tentato Margherita Lazzati: la documentazione continua della decadenza dell’oggetto artistico fino alla sua completa distruzione. In questo senso, la sequenza fotografica è decisamente meglio dell’opera stessa (una copia di un ritratto di Beckett che, a dirla tutta, sembra ingrassato di cinque chili rispetto all’originale).

Documentare il passaggio del tempo ci rende la misura dell’inevitabilità degli eventi: è una metafora della vita, come il video di Sam Taylor-Wood (Still life, 2001) in cui una caravaggesca cesta di frutta ammuffisce, inesorabilmente, in un time lapse accelerato di tre minuti e mezzo. Una condanna a cui i graffiti non si possono sottrarre e dalla quale nulla li difende. L’amministrazione comunale di Milano ha spazzato via, con un colpo di spugna grigia, vent’anni di storia del writing milanese, cancellando tutte le storiche hall of fame della città. E dando vita a un fenomeno di selezione avversa: per ridurre le scrittacce (che non piacciono al cittadino) il comune ha cancellato i graffiti belli (che piacevano al cittadino). Al posto delle hall of fame, ora, ci sono solo tag e throw up. Grazie sindaco!

E se le sporadiche e poco sensate iniziative che hanno mirato al restauro e alla salvaguardia dei graffiti (come il restauro del muro di Bros (http://archiviostorico.corriere.it/2008/febbraio/24/Graffiti_arte_cancellati_via_restauri_co_7_080224020.shtml) in via Olona, a Milano) grazie al cielo hanno avuto vita breve, i lavori di documentazione seria di un singolo muro sono stati veramente pochi.

Graffiti Archaeology è una di queste analisi diacroniche, un meraviglioso time-lapse collage che documenta diverse hall of fame statunitensi dai Novanta ad oggi (http://www.otherthings.com/grafarc/).

Un’altro esempio, stavolta nell’area della street art, è “self destructing sticker” dell’olandese Erosie, in cui il progressivo scoloramento di un’adesivo rende vera la dichiarazione dell’adesivo: “this sticker will self destruct” (http://www.erosie.net/index.php?/2004/self-destructing-sticker/).

La serie di Margherita Lazzati non ha il potere di fermare il tempo. Ne scandisce il passaggio e racconta una realtà spietata e spesso ignorata: quando un pezzo è concluso, non è più di proprietà del writer. È alla mercè dei fotografi, degli altri writer, delle intemperie e di chi cancella i graffiti. I writer consegnano le loro opere all’azione incontrollata degli agenti atmosferici e della società, con determinata rassegnazione e consapevolezza.

Per fortuna, ci sarà sempre un’altra generazione di writer, pronta a stendere un altro strato di vernice.

 

Scrivere il nome, tra inclusione e repressione

Ogni volta che si parla di graffiti, gli storici dell’arte partono da quelli preistorici con la caccia al bisonte, dalla grotta di Lascaux e dalle incisioni rupestri della Val Camonica. È un dramma: i graffiti che conosco io non hanno nulla a che fare con questi. L’ambiguità lessicale mi costringe a iniziare, ogni volta, da una questione terminologica che, colpevolmente, restituisce una realtà distorta.

 

Il termine graffiti, ci dice il dizionario, deriverebbe in qualche modo dal termine greco per “scalfire, incavare, disegnare”, graphein. È un termine perfettamente azzeccato, dunque, per individuare le incisioni rupestri e anche i disegni dei carcerati, che costituiscono l’oggetto di questo volume.

I graffiti insomma, fino agli anni Settanta, sono solo ed esclusivamente le pitture murali, più o meno incise o graffiate, ricondotte raramente a un intento artistico. Piuttosto, collegate a un intento divinatorio, propiziatorio, o di semplice comunicazione.

 

C’è stato un momento in cui il termine “graffiti” è passato a indicare anche le scritte sui muri, fatte a pennarello o a spray e di seguito anche i disegni che, negli anni Settanta, iniziavano ad apparire sulla metropolitana di New York.

Il New York Times rileva la presenza di una nuova sottocultura nel 1971, quando dedica un articolo e una intervista a Taki 183, un giovane di origine greca che aveva iniziato a scrivere il proprio nome dappertutto, con dei pennarelli, stimolando altri ragazzi a fare lo stesso. Taki, semplicemente, non sapeva spiegare il perchè lo facesse: doveva farlo, e basta.

Il New York Times chiama le firme di Taki “graffiti”, probabilmente in modo dispregiativo, per accostarle al disordine delle incisioni rupestri.

 

I writer, d’altra parte, non usano mai la parola “graffiti”: chiamano se stessi semplicemente “writer”, e descrivono la loro attività come “writing” o semplicemente “scrivere il proprio nome”.

La differenza terminologica è importante solo per un motivo: evidenzia un approccio totalmente diverso.

Non artistico, o almeno non in senso intenzionale. Non propiziatorio, a differenza dei bisonti nelle caverne. Non più sporadico, come nel caso delle scritte vernacolari che sono sempre esistite, sui muri di tutte le città, da Pompei a Parigi.

Si tratta di un approccio totalmente focalizzato sul culto del nome, ripetitivo, seriale, e a-funzionale (non diretto a comunicare nessun messaggio specifico). Taki dice: “devo farlo, e basta”.

 

Ci troviamo di fronte a un cambiamento radicale nell’approccio alla scrittura sui muri: talmente diverso da tutte le manifestazioni precedenti da meritare forse un’analisi fondata su altri presupposti.

 

Naturalmente, questo approccio diverso non ci fu: mutuare il termine generico “graffiti” dalla storia dell’arte equivaleva a generalizzare, a evitare l’inquadramento preciso di un fenomeno poco comprensibile, ma già terribilmente dilagante, se è vero che la Transit Authorithy di New York spendeva, già nel 71, 300.000 dollari per rimuovere tags, scritte varie e oscenità dalle stazioni della metropolitana.

 

È per questo che evito accuratamente, ove possibile, di utilizzare il termine graffiti per riferirmi al writing: è inaccurato e genera confusione.

Una confusione che, naturalmente, fa gioco e fa piacere a chi vuole fare di tutta l’erba un fascio, e pensa che considerare nello stesso novero tag, dichiarazioni d’amore, apologie politiche e calcistiche, liste della spesa paleolitiche per la caccia al bisonte possa essere utile a qualcosa.

 

Questa è la mia area di studio e di intervento: il writing.

Come distinguere una tag o un “pezzo” (un disegno realizzato da un writer) da una scritta di altro tipo? È molto semplice. I writer scrivono il loro nome (o meglio, il loro pseudonimo: trattandosi di un’attività illegale, sarebbe improvvido utilizzare il proprio nome anagrafico).

Si tratta di un’attività piuttosto semplice: scegliere uno pseudonimo, armarsi di pennarelli o di pittura spray, e scriverlo il più possibile, meglio degli altri writer, con più stile, più in grande e possibilmente in luoghi più rischiosi (treni, metropolitane, autostrade, cavalcavia e in genere qualunque superficie verticale scrivibile).

Di conseguenza, le scritte dei writer sono seriali, stilizzate ma soprattutto sono delle firme. Dalla scritta più piccola, tracciata a un colore e con un pennarello, agli immensi pezzi che capita di vedere sui treni, il tratto comune è uno solo: l’ossessiva e martellante ripetizione di un nome.

 

Nel 2010, è possibile riconoscere il segno dei writer in tutte le maggiori città del mondo: tutto è iniziato da Philadelphia e New York, ma già all’inizio degli anni Ottanta il fenomeno si era diffuso a Londra, a Parigi, Amsterdam e Milano. I veicoli della diffusione sono stati molteplici, da libri come Subway Art a documentari come Style Wars e clip musicali come “Buffalo Gals” di Malcolm Mac Laren.

Il writing è diventato una incontrollabile piaga planetaria, almeno per le istituzioni che cercano di sradicarlo, spesso con risultati risibili.

 

La difficoltà di inquadrare il fenomeno (e la commistione terminologica ne è un segnale) gioca un ruolo fondamentale sia per le politiche di repressione sia per quanto riguarda la sua (presunta) accettazione da parte del sistema artistico preesistente. In molti casi, i writer non hanno un intento artistico: il loro obiettivo è semplicemente la competizione con gli altri writer, per la quantità o la qualità delle firme che riescono a piazzare.

L’aspetto estetico dei graffiti è considerato, da molti writer, poco più che una scoria, un residuo, rispetto all’azione e alla competizione.

D’altra parte, lo stesso aspetto estetico ha sollevato prestissimo conseguenze di natura commerciale ed artistica, causando l’ingresso precoce dei writer nel sistema dell’arte: la prima occasione, probabilmente, è del 15 settembre 1973, quando un gruppo costituito da un centinaio di writer (che comprendeva tra gli altri Phase 2, Mico, Coco 144, Pistol, Flint 707, Bama, Snake e Stich), guidati dal sociologo Hugo Martinez, tenne la sua prima mostra collettiva alla Razor Gallery, promossa dalla New York Foundation of Arts. Tutti i lavori della UGA (United Graffiti Artists, così si chiamava il gruppo) furono venduti tra i trecento e i tremila dollari e la mostra fu recensita in modo favorevole dalla critica e dalla stampa specializzata, che se ne occupò fino al 1975, per poi abbandonare, almeno temporaneamente, il fenomeno.

 

I writer, gli ex-writer, i graffitisti (come haring e basquiat, che in realtà hanno condiviso poco con il movimento), gli artisti provenienti dal writing hanno quindi formato un unicum estremamente eterogeneo e difficilmente comprensibile, sicuramente bivalente.

Da un lato le frange più estreme del movimento, certe che l’illegalità e la competizione sul nome fossero parti essenziali al loro operato, spesso disinteressate o addirittura ostili rispetto ai criteri e alle politiche del mercato dell’arte, sicuramente autoreferenziali: “it’s for us, I don’t care about them”, dice Skeme nel documentario Style Wars.

Dall’altra, chi ha iniziato a vedersi come un “graffiti artist” più che come un “graffiti writer”, dando vita a una concezione del fenomeno fortemente deviata dalle influenze di tipo commerciale.

 

“it’s for us”: è per noi. in due parole, la sintesi di un movimento totalmente concentrato verso l’interno, criptico, autoreferenziale, in cui tutto è rivolto solo ed esclusivamente agli altri writer. La calligrafia è incomprensibile, le lettere sono ostiche, le identità sono celate dagli pseudonmi, i motivi per cui si dipinge non sono espressi chiaramente. Anzi, non sono espressi affatto. O, secondo alcuni, addirittura non ci sono: i writer non sanno perchè scrivono, lo fanno e basta.

Parallelamente, questa esigenza di chiusura all’esterno costituisce il paradigma di un’inclusione: se sei un writer, sei dentro, sei dei nostri, capisci e sei in grado di valutare chi è il king, quello che dipinge meglio e di più.

 

La società civile ha risposto a questo movimento, la cui manifestazione è prevalentemente illegale, con movimenti di segno opposto: la repressione e l’eliminazione delle tracce.

Tracce spontanee, che descrivono forse il tempo in cui viviamo, così come i graffiti di Palazzo Steri descrivono l’universo degli incarcerati dell’Inquisizione.

Certamente, la proliferazione incontrollata di una giungla di segni nello spazio pubblico determina un clima di incertezza, di perdita di controllo. Ancora di più se, abituati a segni che sono funzionali, alla reclàme, alla grafica informativa, ci troviamo davanti a firme apparentemente prive di un senso. E, certamente, prive di un intento commerciale.

 

A giudicare dallo stato di molte città italiane, la strategia di repressione e cancellazione ha dato frutti modesti: le più grandi città italiane sono devastate, senza possibilità di recupero, da una fitta trama di tag, throw up, pezzi.

Tuttavia, le spese per la cancellazione e la rimozione dei graffiti sono cospicue: Trenitalia dichiara di spendere circa 3 milioni di euro all’anno per pulire i treni, una cifra simile a quella che spendono le Ferrovie Nord di Milano e ATM (2 milioni di euro a testa).

Il comune di Genova spende poco, solo 90mila euro l’anno per pulire i graffiti, e vanterebbe un rapporto amichevole coi writer. In effetti è poca cosa, soprattutto se paragonati ai 25 milioni di euro di Milano (2009), tra pulizia e campagne di sensibilizzazione. Una bella cifra, che finiva in gran parte nelle casse di AMSA, l’azienda che gestisce sia le operazioni di pulizia che le affissioni pubblicitarie anti graffiti.

Secondo l’associazione dei costruttori edili, i maggiori Comuni italiani spenderebbero circa 25 milioni di euro l’ anno per ripulire le facciate dei palazzi e sistemare le aree pubbliche vandalizzate.

Si tratta di un problema di priorità e di agenda setting. È chiaro che, visti i risultati, i 25 milioni di euro che i nostri Comuni erogano, ogni anno, per seppellire le tracce del writing sembrano – quanto meno – spesi male. La città di Milano, con un colpo di spugna, ha deciso di cancellare tutte le storiche Hall of Fame semi-legali che resistevano da vent’anni, indisturbate e anzi benvolute dalle persone comuni. Cancellando, in un colpo, una importante memoria storica del writing italiano e producendo un danno storico incalcolabile.

Non dico che i graffiti vadano conservati: sono effimeri e sono fatti per scomparire.

Per chi li studia però, la cancellazione dei graffiti è come mandare un bulldozer in un museo archeologico: costoso e dannoso.