La strada, come galleria

Testo apparso in
– Elena Del Drago e al., Arte Contemporanea (Sette.Ambienti), Espresso – Electa, Milano 2008 (pag.163-173)
– Elena del Drago e al., Contemporanea. Arte dal 1950 ad oggi, Electa, Milano 2008

La strada, come galleria.

La strada è uno spazio vitale aperto a tutti, è lo spazio pubblico per eccellenza e sancisce il confine tra ciò che è di tutti e ciò che è relegato all’iniziativa e alla responsabilità privata, tra il comune e il personale. Che possa essere il luogo d’elezione per un’espressione artistica da molti a molti è una conseguenza diretta della sua natura: spesso gli artisti hanno scelto di interpretarla, modificarla o usarla come medium e la tendenza si è intensificata negli ultimi trent’anni.
La volontà di incidere il territorio non è certo una novità, possiamo trovarne testimonianze dalle caverne al monte Rushmore, fino alle installazioni di land art. Da Basquiat (in qualche modo imparentato con l’oggetto di questa trattazione) a Jenny Holzer e Barbara Krueger (che per un periodo ha affisso le sue stampe per le vie di New York), la strada è diventata di volta in volta oggetto dell’agire artistico, veicolo di un messaggio o destinatario dello stesso.
Lo sfruttamento della strada come spazio pubblicitario ha suscitato le dovute critiche sulla mercificazione di un luogo che dovrebbe essere di tutti e, quindi, riservare a tutti le stesse possibilità di espressione, indipendentemente dalla disponibilità a pagarlo. Le iniziative di riappropriazione delle superfici verticali non si contano, dal californiano Billboard Liberation Front agli Adbuster di matrice canadese o ai gruppi Reclaim The Streets, fino a progetti più recenti come Delete, in cui un gruppo di artisti ha mascherato e coperto con carta gialla tutte le pubblicità, le insegne e i loghi dell’intera via Neubaugasse a Vienna. Ogni giorno i pedoni sono sottoposti a più di 3000 stimoli commerciali e Delete vuole dimostrare che la loro improvvisa scomparsa muta il paesaggio cognitivo, sfumando quelli che ormai sono riferimenti certi, imprescindibili. I passanti, spaesati o straniti, hanno espresso il loro dissenso scrivendo frasi di protesta a pennarello sulle superfici riportate all’anonimato (da “ridateci le insegne” a un sardonico “era meglio blu”).
Lo spazio pubblico cui facciamo riferimento (in senso anche toponomastico: ci si vede al Fila Forum, al PalaVobis) è ormai immerso in modo indissolubile in un pattern di simboli commerciali, di nomi il cui significato pubblicitario è quasi indissolubile dal ruolo funzionale. La presunta difesa di tale spazio professata dalle amministrazioni pubbliche, in nome del decoro, della pulizia, dell’igiene, si confonde troppo spesso con la strenua difesa di monopoli commerciali su uno spazio che è pubblico solo quando è il municipio a incassare i diritti di affissione, è privato solo quando il commerciante si lamenta dei graffiti, è prostituibile sempre e comunque, come dimostrano i tanti edifici storici imballati da cantieri sempiterni e sponsorizzati, che fruttano un tanto al dì.

E se il privato dilaga, erodendo a ogni piè sospinto ciò che un tempo era pubblico, il fatto che chi la strada la abita e la vive cerchi di riconquistare il terreno perduto non può certo stupirci.
Un’azione di remix dell’immagine pubblica sistematica e incisiva arriva però solo negli anni Settanta, con il graffiti writing. E poiché ogni volta che si parla di “graffiti” i media amano pensare a Lascaux, Pompei e Keith Haring, è bene rimarcare quanto il loro tentativo di inquadramento del fenomeno sia distante dalla realtà.
I writer, figli della nascente società di massa dei Settanta, scrivono, e scrivono il loro nome. Da qui, la denominazione writer. L’intento, narcisistico e stilistico, è quanto di più lontano possa esistere dalla propiziazione della caccia al bufalo (anche se, si dice, la caverne di Lascaux ricordano i tunnel della metro di New York), dalla comunicazione murale pompeiana e anche dall’arte stradale di Keith Haring, che le distanze dai writer le prese subito: “Avevamo rispetto per i graffitisti, ma il nostro era un lavoro diverso, e non ci siamo lasciati accomunare da quella situazione”, tiene a sottolineare l’artista newyorchese, parlando di sé a Basquiat.
I media, che in un primo momento esaltarono il fenomeno con tolleranza hippy, passarono presto dalla parte del potere costituito e degli interessi privati. Le scritte sui muri erano (basti pensare al film Warriors) un simbolo lampante che la società aveva perso il controllo di alcune zone della città e di talune fasce di popolazione, considerate irrecuperabili.
“A symbol that we lost control”, rimarca il chief executive officer della metropolitana di New York, nel documentario Style Wars (Chalfant e Silver 1983). Un titolo appropriato: infatti, erano esattamente guerre stilistiche quelle che si svolgevano nei tunnel della metro di New York dalla fine degli anni Sessanta e che perdurano sulle fiancate dei convogli nostrani. Guerre combattute a suon di lettere e di tecniche, sfide positive in cui il vandalismo non è il fine, ma lo strumento per ottenere la fama tra gli altri writer, scrivendo il proprio nome sempre meglio e sempre più in grande.
La competizione nel disegno delle lettere, come tutte le gare, è circoscritta da regole precise cui la comunità dei vandali si attiene, leggi consuetudinarie punite con sanzioni sociali o rappresaglie fisiche: la regola principale è il rispetto verso il nome degli altri, verso le altre firme e gli altri pezzi. E se la norma vorrebbe che si evitassero opere d’arte e luoghi di culto, queste limitazioni tendono a venire meno quando la competizione si infittisce e l’unico modo per emergere tra centinaia di altri writer è colpire bersagli tabù: si pensi alle grandi metropoli, in cui la scena locale conta centinaia di nomi, tutti in lizza per l’unico posto di King – the best with the most.
I criteri di giudizio sono decisamente stringenti e per scalare i posti in classifica le armi sono poche: lo stile, la quantità e la predisposizione al rischio. Se all’inizio imprecisioni tecniche, sbavature e scarsa padronanza degli strumenti erano gravi pecche nel curriculum di un writer, il cambiamento di alcune variabili esogene (aumento dei controlli, diminuzione del tempo disponibile, nuovi strumenti) ha portato a riconsiderare alcuni parametri di valutazione: i writer moderni colano, sbavano, fanno linee sfumate e poco precise e le loro campiture sono disomogenee di proposito. Colpire bersagli impossibili in quantità industriale e avere uno stile proprio, seppur tecnicamente scadente, sono spesso gli obiettivi primari.
Il writing è una filosofia stilistica, è uno sport estremo giocato fuori dai playground stabiliti, è una sottocultura con una forza e una carica tremende che ha resistito ai cambiamenti sociali e culturali dell’ultimo trentennio e, anzi, si diffonde nonostante gli attriti costituiti dalle forze di polizia o pulizia: a poco valgono le continue campagne di cancellazione, rieducazione e dissuasione; il germe del vandalismo si propaga anche in luoghi – il Giappone ne è un esempio – in cui il culto della pulizia e della proprietà sono radicati un maniera ben diversa rispetto al mondo occidentale.
La missione è semplice da capire e da abbracciare: scrivere il proprio nome meglio e più volte, conquistare lo spazio comune, res nullius, e appropriarsene simbolicamente, apporre la propria bandiera di conquista in luoghi irraggiungibili e nello stesso tempo esprimere la propria creatività – già da quando la definizione “classe creativa” non era ancora stata coniata – al di fuori di qualunque schema istituzionale.
Il writing non esiste, esistono solo i writer: personalità solitamente forti ed egocentriche, che hanno interpretato il fenomeno in modi diametralmente opposti, spesso imponendo la propria visione. Questo fa sì che all’interno dello stesso movimento possano sopravvivere puri artisti e puri vandali, writer votati alla quantità e aerosol artist maniaci dei particolari.
La storia – seppur breve – del movimento ha visto molte fasi e molti mutamenti: anche se erano il nome e l’azione ad essere prìncipi nella New York degli anni Settanta, le qualità estetiche del prodotto artistico hanno attirarono presto l’attenzione del mondo dell’arte, dando vita a un dibattito intenso sull’opportunità di esporre all’interno di una galleria – e di rinchiudere in una cornice istituzionale – un’espressione nata per strada, che si realizza al meglio soltanto nell’illegalità.
La sorpresa e lo spaesamento, la ri-contestualizzazione dello spazio pubblico, l’ira o l’ammirazione che sono collegate ai graffiti sono fattori che vengono facilmente a mancare in uno spazio istituzionale: l’arte di strada in vitro è senza punta, non colpisce e non fa male.
Certo non tutti i writer sono uguali, e taluni riescono a dare in galleria o su tela di più di quello che riescono a fare per strada: potremmo dire che non sono più soltanto writer.
I writer infatti, quelli veri, vivono benissimo anche senza le gallerie, senza le pareti legali e l’aiuto delle istituzioni. E anche la continua cancellazione, il buffing, dai muri e dai treni non ha sortito gli effetti sperati: molti treni continuano a girare dipinti, la quantità di muri colorati non è diminuita e l’inasprimento delle pene e dei controlli aumenta solo il rischio e la sfida, in un gioco al rialzo che ha come effetto la trasformazione del paesaggio urbano.

Figli della repressione
I limiti, le repressioni, l’inasprimento delle sanzioni e delle pene, gli arresti e gli inseguimenti hanno di certo un effetto su stile e qualità dei graffiti, così come ogni mutamento nel contesto politico e sociale lo può avere sulle opere d’arte “tradizionali”. A un estremo possiamo trovare murate votate al committente-mecenate in maniera imbarazzante, al punto da costituire un’intera branca dello street marketing: tedeschi come Daim e Loomit o padri fondatori del writing come i newyorchesi FX ne hanno fatta una vera professione, e ci risulta difficile biasimarli, sia per la qualità tecnica dei loro lavori, sia pensando a quanto di eccellente i grandi mecenati del passato ci hanno regalato. In ogni caso, il significato e il potere espressivo di queste composizioni è profondamente diverso da quello indipendente e gli artisti stessi ne sono consapevoli: quando il marketing si mischia ai graffiti, spesso è la stessa scena locale a smascherare la truffa (come nel recente caso della campagna di affissione illegale Sony PSP, giustamente imbrattata delle frange più seriose del movimento).

Nelle strade e nei depositi dei treni i controlli del fondamentalismo igienista hanno certamente portato a mutazioni stilistiche e, dove i tempi stringono e i vigilantes incalzano, gli stili subiscono una relativa semplificazione, le colorazioni diventano più omogenee – anche se non banali – e il numero di elementi addizionali barocchi e di fioriture dello stile decresce, pur con lodevoli eccezioni.
Di certo, uno dei risultati più rilevanti delle strategie repressive è lo spostamento ad altre tecniche e altri medium: se la realizzazione di un pezzo a spray, quali che siano le sue dimensioni e il numero di lettere, richiede un cospicuo numero di minuti, altrettanto non può dirsi per la realizzazioni di stencil o per l’affissione di poster.
Se questi mezzi si prestano poco al disegno delle lettere, la loro – sempre relativa – facilità di realizzazione li rendono strumenti ideali per la diffusione di semplici loghi o personaggi stilizzati. Bansky ammette di essere passato agli stencil, dopo anni di writing, per ridurre il profilo di rischio e il tempo di realizzazione delle sue opere in una Londra sempre più orwelliana e potersi così concentrare più sul messaggio che sullo stile – come il lettore potrà ben capire, si tratta di un passo logico in una carriera artistica, motivata cioè da finalità ben diverse da quelle di uno scrittore di graffiti. Non dissimilmente, le abnormi affissioni di Obey The Giant a San Francisco gli consentono di attaccare spazi differenti e di esprimere con completezza idee e orientamenti che si collocano in una ben definita corrente d’arte pubblica e politica.
Come il bolognese Blu che, abbandonato lo spray che pur utilizzava con maestria, ha abbracciato pennello e rullo per creare personaggi alti decine di metri, realizzati sulle facciate dei centri sociali, sulle enormi costruzioni in disuso e sui cadaveri dell’epoca industriale di cui le nostre città sono disseminate. “L’artista da salotto è un mestiere come un altro” dice Blu (in un intervista sul sito www.fatbombers.com) “ma per adesso faccio tanto bombing [dipingere illegalmente per strada] perchè mi piace, perchè voglio comunicare con la gente per strada e mi piace vedere le reazioni di chi osserva i miei disegni.”

Sticker, stencil, poster hanno subito una proliferazione a tratti inquietante: facili da realizzare e da riprodurre, hanno preso piede, talvolta al punto da veicolare un mero formalismo, in una replicazione delle idee precedenti che sarebbe (ed è) stata molto poco tollerata in un ambiente, come quello dei writer in senso stretto, in cui l’originalità è un valore imprescindibile.
Bansky ha definito questa nuova ondata brandalism, il vandalismo del brand: gli artisti assimilano le logiche del marketing e le ritorcono contro il sistema. Se la sovrapposizione di firme le svuota di significato e le rende spesso incapaci di attirare l’attenzione, il ricorso a un simbolo o un logo può garantire livelli di awareness da tempo insperati.
Il pattern di sticker, poster, loghi e facce che ha preso piede negli ultimi anni non è un’evoluzione del writing delle lettere, né una filiazione, né tantomeno una corrente diversa e opposta. È semplicemente una delle tante possibili ramificazioni che l’arte di strada sta subendo, a distanza di trentacinque anni dalla sua esplosione: le differenze rispetto alla forma degli anni Settanta sono molte, alcune profondissime. Ma i punti di contatto sono numerosi ed è impossibile ignorarli: la strada, l’azione notturna, la (parziale) illegalità, il desiderio di fama e di esposizione. Colpisce il fatto che i migliori loghi e i migliori poster siano stati creati proprio da writer di vecchia data (La Mano e Alexone, per fare due esempi).
È il caso dell’italiano Basik che, reduce da una longeva carriera come writer, ha deciso di portare anche il suo (parallelo) discorso pittorico sulla strada, realizzando a pennello preziosi personaggi in bianco, nero e oro, ripetuti fino all’ossessione. “Questa serialità più o meno evidente della street art” pensa Basik “trae ispirazione dal tagging. Le lettere sono state semplicemente sostituite con una propria icona”.
Reinterpretando in modo personale le tecniche di affissione abusiva utilizzate in campagna elettorale, il palermitano Lino ha iniziato nel 2007 ad incollare sui muri della città dei veri e propri graffiti realizzati su carta. L’idea è riutilizzare contro la città i metodi e le tecniche di propaganda cui la comunicazione commerciale e politica ci sottopongono, rovesciando gli equilibri con un budget quasi-zero.

Il popolo degli adesivi ha vissuto, dopo il 2000, alcuni anni di intensa esposizione mediatica, in un universo commerciale sempre più affamato di tendenze street: Dave the Chimp, inglese, commenta il fenomeno dicendo che “Le cose sbocciano, poi muoiono e solo i forti sopravvivono” (Things bloom, then die, and only the strong survive). Aggiunge che sta aspettando di veder morire l’attenzione verso il fenomeno, in modo da lasciare spazio al lato più underground, quello di cui sente di fare parte.
Milano è stata per alcuni anni uno dei poli più attivi della scena internazionale: tra il 2000 e il 2005 si percepiva per strada una potente folata di creatività, passeggiando tra i poster di Abbominevole, Ozmo, Bo130 e Microbo tra gli altri. Santy e El Gato Chimney, tra i pochi rimasti attivi (di notte) in un movimento che sembra assopito, continuano ad affiggere manifesti di carta dipinti a mano, con uno stile pittorico (Santy) o più illustrativo (El Gato), perseguendo una ricerca dell’innovazione e contemporaneamente restando ancorati a uno stile forte.

Se questo fenomeno è assimilabile a una corrente artistica, di certo non è destinata alle gallerie: gran parte della sua forza deriva dallo spiazzamento, dallo stupore di vedere un personaggio, un logo, una forma astratta incollati dove non dovrebbero essere: per strada, in alto fino a 5 metri, sui muri dei palazzi.
L’osservatore comune è stupito e spiazzato dall’onnipresenza della street art all’interno della città e dalla ricercatezza e, talvolta, eleganza delle opere. L’appassionato d’arte è frastornato dal completo anonimato degli autori, che vengono così a confondersi con l’opera (La Mano disegna mani gialle, Obey the Giant affigge poster con la faccia di André the Giant, storico wrestler anni Ottanta, Il Ciuccio Nero…ve lo lascio immaginare), dalla serialità delle opere, spesso incentrate attorno a un unico soggetto e, naturalmente, dall’illegalità delle azioni: la street art è reato, per il codice penale italiano, ex articolo 639 e 639 bis. Testimone, tra gli altri, ne è Pao, il milanese dei pinguini, orgoglioso titolare di una multa di 200 euro per danneggiamento, ebbene sì, di panettone antiparcheggio.
Annoverate da Hakim Bay tra le TAZ, Zone Temporaneamente Autonome, gli edifici abbandonati e le fabbriche in disuso sono tra i luoghi preferiti per l’arte urbana (sia per i graffiti che per tutto il resto): “il cimitero dell’operato umano diventa museo di arte pubblica, libera a chiunque voglia fruirne” (dal manifesto del gruppo Re-edit). Dem, che nel corso degli ultimi anni ha dipinto numerosi personaggi diabolici (utilizzando principalmente tempera e pennelli) in tantissimi luoghi abbandonati, pensa che il confine tra spazio pubblico e privato debba favorire il pubblico: “io parto dal presupposto che la strada è della gente e che non ha nessun padrone. Però appunto perchè è di tutti bisognerebbe cercare di fare cose comprensibili a molti e cercare di mandare dei segnali veri” dice con una vena polemica, separando i personaggi di quelli che vengono chiamati “street artist”, artisti di strada, dal prodotto dei writer, sovente incomprensibile e autoreferenziale.
I writer come Dumbo, d’altra parte, vivono la strada in tutt’altro modo: “Io personalmente in strada non faccio arte; faccio le tag, le passeggiate con mia moglie e mio figlio e il coglione con gli amici. E qualche volta ci piscio. E basta.”

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