“Il momento clou della serata giunse quando, d’un tratto, Andy Warhol e Toni Shafrazi (il mercante d’arte) entrarono nel seminterrato. Eravamo tutti sconvolti. A quel tempo Andy girava intorno al Mudd Club e doveva essersi reso conto che qualcosa di straordinario stava succedendo a downtown”, racconta Kim Hastreiter.
Haring elabora una calligrafia scorrevole, che parte dalla lettera alfabetica (non necessariamente dell’alfabeto europeo) per arrivare a una gestualità fluida e veloce, in cui il segno largo e netto dei suoi ideogrammi si assiepa intorno a quello che è il suo simbolo costante, il “radiant boy”, il ragazzo radioattivo da cui emanano raggi di luce.
“Se la tecnologia cambia il mondo, la gente continua ad avere gli stessi problemi, gli uomini sono sempre assillati dagli stessi bisogni fondamentali e primari, quelli che ne definiscono la natura umana”.
All’inizio dipinge su pietra e legno, materiali facilmente asportabili, in modo che le persone possano facilmente appropriarsi del suo lavoro; allo stesso modo, i personaggi disegnati a gessetto bianco sui cartelloni neri della pubblicità avevano lo scopo di comunicare con un pubblico ampio e di rallegrarlo, costituendo contemporaneamente una precoce critica alla mercificazione dello spazio pubblico operata dall’advertising.
La sua ascesa è rapida e lo porta a esporre prestissimo: dopo Fashion Moda (’73) espone alle mostre del CoLab di Ahearn e a Times Square nel 1982 (dove un cartellone elettronico mostrava, per trenta secondi ogni venti minuti, le sue creazioni).
Lavora per la collezione “Autunno 83” di Vivienne Westwood e tiene diverse mostre personali in Italia nel 1983, a Bologna, Napoli, Milano.
Sfidando le regole della buona pittura, Haring non ha mai mescolato i colori o utilizzato sfumature: preferiva le tinte piatte e possibilmente molto sature, i colori primari e una certa parsimonia nella scelta della tavolozza, impiegando due, al massimo tre colori.