“se gli altri non possono leggerlo non mi importa, non mi importa di loro, è per noi”. “It’s for us”, sono queste le parole del giovanissimo writer Skeme, nel 1983, ripreso da Henry Silver e Tony Chalfant nel documentario Style Wars. “Quello che avete tra le mani” controbatte sconsolata la madre di Skeme nello stesso documentario, “è solo una miserabile sottocultura”.
Sono tante le sottoculture che nascono in quegli anni e quasi tutte, prima o poi, subiscono gli attacchi del mercato, che cerca di assorbirle e renderle innocue: allo stesso modo i pezzi dei writer, che nel giro di pochi anni ricoprono quasi tutte le carrozze della metropolitana (e iniziano a vedersi anche su alcuni muri della città di New York), realizzate a spray con molti colori, sono esteticamente appaganti al punto da indurre alcuni osservatori a considerarle, quasi, una forma d’arte.
Il mercato dell’arte, proprio in quegli anni, assiste a un ritorno alle forme d’espressione pittorica ed è assetato di novità come non mai: si aggiunga che i graffiti rappresentano a pieno la controcultura, prodotti quasi sempre dalle classi sociali disagiate, con pochi mezzi e con una carica energica dirompente. È difficile non notarli.
Il 15 settembre 1973 un gruppo costituito da un centinaio di writer (che comprendeva tra gli altri Phase 2, Mico, Coco 144, Pistol, Flint 707, Bama, Snake e Stich), guidati dal sociologo Hugo Martinez, tenne la sua prima mostra collettiva alla Razor Gallery, promossa dalla New York Foundation of Arts. Tutti i lavori della UGA (United Graffiti Artists, così si chiamava il gruppo) furono venduti tra i trecento e i tremila dollari e la mostra fu recensita in modo favorevole dalla critica e dalla stampa, che se ne occupò fino al 1975, per poi abbandonare il fenomeno.
Graffiti Writing, Haring, Basquiat
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