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Schloss Solitude Akademie: il futuro delle residenze d’artista potrebbe essere online

In uno dei miei colpi di fortuna (proverbiali, quasi quanto le mie gaffe) sono stato invitato a nord di Stoccarda, nel mezzo del nulla, in un castello del diciottesimo secolo circondato da una foresta rigogliosa e popolata da cinghiali selvatici.

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Il castello (“schloss”) Solitude è la sede di una delle istituzioni artistiche più prestigiose in Europa, la Schloss Solitude Akademie, che ospita ogni anno 45 artisti e ricercatori di diverse discipline, dalle arti visive alla performance, dal giornalismo al business.
Le categorie sono molte e sono sempre in evoluzione: questo garantisce un continuo ricambio e aggiornamento.
Per esempio, tra i residenti attuali, nella sezione “business”, c’è un hacker che lavora sul concetto di proprietà intellettuale (probabilmente è tra i releaser di http://aaaaarg.org/ una delle più estese librerie di ebook pirata).

Agli artisti selezionati non è richiesto nulla, se non di risiedere qui per un anno e di realizzare un loro progetto, con i tempi e i modi che preferiscono. Hanno uno studio per lavorare, una serie di laboratori (per la lavorazione del legno, dei metalli, per la musica, per le performing art) e una biblioteca con una valanga di libri che vorrei avere.
Ogni Fellow può chiedere di avere dei libri nuovi: in questo modo la biblioteca evolve seguendo i desideri e le necessità degli artisti.
Su una delle vetrine della biblioteca, uno degli artisti ha fatto scrivere queste frasi:

Challenge the increasing
saturation of printed matter

What do you plan to do with
this when you’re done with it?

(La prima risposta a questa domanda è uno scanner bookdrive, con il quale Schloss Solitude Akademie sta programmando di digitalizzare la biblioteca).

Quindi, i 45 fellow dedicano quasi un anno della propria vita a produrre qualcosa, a discutere con gli altri, a studiare e a presentare il proprio lavoro.

La sera si trovano tutti insieme e costruiscono delle relazioni che li accompagneranno tutta la vita (da quello che ho visto, le attività preferite di questo selezionatissimo gruppo internazionale sono: guardare film di culto cyberpunk giapponesi, giocare a domino, a bere birra tedesca terribilmente frizzante. Non necessariamente in quest’ordine).

Il sito web dell’accademia fa un ottimo lavoro nel visualizzare tutte le relazioni che si sono create in questo network che, dopo trent’anni di attività, conta circa un migliaio di persone.

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Jean-Baptiste Joly, direttore dell’accademia da quasi trent’anni, dice: “quello che facciamo è creare una community, in base alle singole personalità che aggiungiamo al gruppo. È molto più facile quando coinvolgiamo dei singoli artisti che quando si tratta di gruppi”.

Questo è il primo anno (2014) in cui l’accademia ha accettato delle applications online: ne ha ricevute più di 3000, da tutto il mondo (sono il doppio rispetto all’anno scorso). Le application dovranno subire un processo di selezione da parte di un gruppo di giudici (solitamente, si tratta di personalità di altissimo livello nelle discipline di competenza).

Ancora prima di analizzare la sua evoluzione online, l’accademia sta guardando all’Asia in modo concreto: hanno deciso di abbandonare la visione eurocentrica e hanno composto la prossima giuria quasi interamente con giudici che vengono dall’India, dalla Cina, da Hong Kong. Il prossimo presidente di giuria sarà l’architetto Indiano Kaiwan Mehta. La selezione dei giudici consente all’accademia di orientare la propria sensibilità anche verso nuove aree geografiche e nuovi argomenti.

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Quello che ho percepito, qui, è un’energia creativa e una potenza veramente fuori dal comune. Schloss Solitude Akademie è riuscita a evolvere continuamente e a sfornare artisti di successo per moltissimo tempo. Seguendo – tra l’altro – il cambiamento dei parametri di successo nel corso del tempo.

Oggi la produzione artistica è sempre meno legata alla residenza in uno spazio fisico e alla creazione individuale: spesso avviene in modo collettivo e destrutturato, anche via web.
Potremmo paragonare la creazione artistica alla produzione di contenuti: le sfide che si stanno affrontando sono le stesse.

Anche il dibattito viene veicolato dal web: diventa più ampio, meno strutturato, più difficile da seguire e spesso più aspro. Uno dei casi più recenti è la critica di Rhizome verso l’ultima opera di Ryder Rypps: partita da Twitter si è moltiplicata e frammentata con modalità difficili da mappare (qui qui qui qui…).

Parallelamente, la comunità creativa su internet è di dimensioni fantasmagoriche rispetto a quella offline: basta pensare ai MOOC, che arrivano ad aggregare 30.000 iscritti (come nel caso di design101 su Iversity) e si prestano a interazioni nuove e molto diverse da quelle a cui siamo abituati.

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L’accademia deve trovare il modo di cambiare radicalmente la propria attività, tenendo fede ai livelli qualitativi sostenuti fino a ora e migliorando la documentazione delle proprie attività: per ora lo fa con un blog. Lo switch digitale è considerato parte delle attività che il ministero della cultura tedesco annovera nel programma che ha chiamato, in modo chiaro e inquietante, “digital offensive“.

Queste sono alcune delle questioni che mi sono trovato a discutere con il direttore dell’accademia (Jean-Baptiste Joly), con Stefano, con Clara e Angela dell’Akademie e con una coppia di consulenti di Berlino (Igor e Johannes, Third Wave).

Ha senso creare delle fellowship online?
È possibile attivare e condensare il dibattito online, in modo che sia proficuo?
Come attivare delle sinergie tra online e offline?
Come raccogliere la sfida di un pubblico che è internazionale e profondamente multiculturale?

La discussione è ancora aperta.

Quanto vale la tua bandiera? Advertising e prostituzione dei diritti sociali

“Il conflitto non è una merce.
La merce invece no,
la merce è soprattutto conflitto.”

Questa fortunata citazione di Andrea Natella è stata un punto fermo per molto tempo, in tutti i miei ragionamenti sulla comunicazione.

Sono ancora convinto che sia così: il conflitto, in quanto tale, non è ancora riducibile a un prodotto, per fortuna.
Però c’è un problema.
La nascita della controcultura, la contrapposizione tra una cultura “mainstream” e l’esistenza di molte nicchie, crea un fortissimo senso di appartenenza. E il senso di appartenenza ha bisogno di simboli, di oggetti, di feticci. Un esempio: gli hippie hanno bisogno dei simboli della pace e i punk generano, inconsapevolmente, un buon mercato per le spille da balia. Insomma, la controcultura aiuta a vendere.

Un amico mi ha mostrato questa campagna di Honey Maid e ha dato il via a questa mia riflessione.
Prendetevi un minuto per guardare il video.

La campagna è bellissima e commuovente.
Lo spot fa leva su quelle che gli americani considerano delle “minoranze” (i gay, le famiglie interraziali e – a quanto pare – i punk rocker) con lo scopo dichiarato di mostrare la famiglia contemporanea e con quello, non dichiarato, di far discutere.
Ci riescono. Gli utenti coprono Honey Maid di insulti variamente razzisti e omofobi.
L’azienda capovolge l’operazione, con un’overdose di buonismo americano che mi fa venire il diabete.

Questo è il mio dubbio: a chi giova questo mix?
L’azienda sta sacrificando il tema dei diritti civili, per raggiungere delle finalità di marketing (vendere più biscotti)?
Oppure, al contrario, la comunicazione commerciale ha – come effetto collaterale e positivo – il fatto di portare visibilità a un tema sociale, caro all’azienda?

Personalmente sono diffidente nei confronti delle aziende. Ho imparato che le aziende hanno una sola finalità: il profitto. Tutto il resto è collaterale.
La mia impressione è che Honey Maid stia immolando la causa delle unioni omosessuali per vendere più biscotti.

A pochi giorni di distanza, Findus manda in onda uno spot ancora più focalizzato sulle coppie gay. Nel caso del nuovo spot dei 4 salti in padella, la “sorpresa” di cui si parla nello spot è proprio il coming out del protagonista, Luca. “Mamma, Gianni non è solo il mio coinquilino. È il mio compagno”. Il primo caso assoluto di un coming out in una pubblicità.

Una strategia di comunicazione, quella di Findus, in cui l’omosessualità serve solo ad attirare l’attenzione, a far discutere, a far parlare. Soprattutto in un paese in cui “Luca era gay” arriva in finale a Sanremo (Luca, come il protagonista dello spot) e lo scivolone di Guido Barilla fa discutere per mesi.
Era meglio quando le pubblicità non mi facevano queste sorprese.

Mi sono chiesto se ci sono altri casi del genere, in cui minoranze, diritti civili o elementi della controcultura vengono immolati come driver dell’attenzione.

Il primo che mi è venuto in mente è un viral: Mark Ecko finge di scrivere “still free” sull’Air Force One, indisturbato. È un caso interessante, di cui parla anche Mirko Pallera in Create (un libro bellissimo, che però dà un’analisi un po’ alla cazzo di questo video). Mark Ecko è un artista e creatore di diversi brand. Tra le altre cose, ha sviluppato un videogioco sui graffiti.

Mark Ecko sacrifica i graffiti per attirare l’attenzione e per vendere più copie del videogame. Inganna lo spettatore, facendogli credere che l’azione sia vera. Sfrutta il linguaggio del writing illegale e attira su di sè i valori, deliziosamente controculturali e underground, del fenomeno.
Cosa pensano i writer di Mark Ecko?

“[…] Stop now and leave graffiti to the graffiti writers.–
Now fuck off.”

Tutto sommato, la sottocultura dei graffiti è poca cosa, da sacrificare, rispetto alle battaglie etiche degli omosessuali e delle minoranze etniche.

Di recente, il giocatore di calcio Daniel Alves, mentre batteva una rimessa laterale, si è visto lanciare una banana da uno spettatore. Senza fare una piega l’ha sbucciata e – platealmente – l’ha mangiata.
L’azione ha generato un’ondata di imitatori che, su tutti i social network, si sono fatti riprendere mangiando banane, al grido di #somostodosmacacos. Indimenticabile la scena di Borghezio che ne mangia una in diretta televisiva.

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Ecco, quest’azione era pianificata dall’agenzia di comunicazione di Neymar insieme all’agenzia publicitaria Laducca.
In questo caso, il gioco funziona al contrario: il giocatore ci fa credere che un gesto sia spontaneo e fa partire una campagna virale, ma non vuole vendere niente. Il fine è benefico e (forse) universalmente riconosciuto come positivo: l’antirazzismo.

Mi fa pensare a Suor Cristina che dirotta i minuti finali di The Voice Italia per recitare il padre nostro.
Ecco, il problema per me è questo: la pubblicità e la propaganda dovrebbero essere dichiarate. Sia che stiamo vendendo i biscotti, sia che stiamo vendendo Gesù.

Alves e Suor Cristina mi sembrano, tutto sommato, animati da finalità discutibili ma benevole.
Un caso che mi sembra più strano è Pif.

Pif si presta come testimonial di una campagna TIM in cui delle attività moderatamente illegali (guerrilla gardening, tango illegal) sono un pretesto per usare gli sms.
Anche in questo caso, i valori – seppur minimi – di protesta di una community come quella del guerrilla gardening vengono prostituiti per attirare l’attenzione su un prodotto.
Pif, da parte sua, si ripara la coscienza dicendo che userà i proventi per creare un museo dell’antimafia.

Il caso sicuramente più inquietante è quello delle Femen, attiviste ucraine famose per utilizzare il proprio corpo svestito per attirare l’attenzione su temi di utilità sociale.
A un certo punto, si scopre che ricevono uno stipendio fisso da una grossa agenzia pubblicitaria. Vabbè, fino a qui.
La notizia che mi lascia veramente sconcertato è il fatto che l’azione che mettono in scena a Istanbul venga effettivamente sponsorizzata da un’azienda che produce lingerie, Suwen  .
È particolarmente grave, perchè in questo caso è la protesta che viene sacrificata, per vendere le mutande (o, forse, le mutande supportano la protesta?).

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La forza di un’azione politica sta proprio nell’assolutezza degli intenti. Chi protesta fa quello, ha un obiettivo solo. Non si ferma a vendere ghiaccioli, mentre porta uno striscione.

E invece le Femen lasciano che ci sia questa confusione tra protesta e attività commerciale.
Una commistione che, inevitabilmente, indebolisce il loro messaggio: si stanno battendo per i diritti delle donne o stanno fatturando come testimonial di un produttore di mutande col pizzo? Questo dubbio, questa doppiezza, sposta l’attenzione dalla loro attività.
Contemporaneamente, mina alla base la credibilità di tutte le proteste.

Ed ecco che il conflitto, magicamente, diventa una merce.
E io non so più in cosa credere.
Andrò in piazza a sventolare dei biscotti.

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Note 
I miei riferimenti per scrivere questo sono stati Guerrigliamarketing, Heat e Potter, Naomi Klein, AdAge.
In origine avevo scritto questo post per Doppiozero ma poi avevo fretta e me lo sono pubblicato da solo. Se poi mi vorranno ancora bene lo pubblicherò anche lì.

Introduzione a Il Mondo Nuovo di Stefano Mirti

Ho scritto quest’introduzione al libro di Stefano Mirti, Il mondo nuovo. Guida tascabile #design #socialmedia #alterazioni

“Un essere umano deve essere in grado di cambiare un pannolino, pianificare un’invasione, macellare un maiale, guidare una nave, progettare un edificio, scrivere un sonetto, tenere la contabilità, costruire un muro, aggiustare un osso rotto, confortare i moribondi, prendere ordini, dare ordini, collaborare, agire da solo, risolvere equazioni, analizzare un problema nuovo, raccogliere il letame, programmare un computer, cucinare un pasto saporito, battersi con efficienza, morire valorosamente. La specializzazione va bene per gli insetti.” (Robert A. Heinlein)

Il mio lavoro consiste nell’aiutare le aziende a comunicare online.

Certamente esistono professioni più sexy: l’astronauta, il broker, l’architetto.
Tuttavia, si tratta di un’attività curiosa e per certi versi addirittura interessante.

Prima di tutto perchè è un’attività che, fino a pochi anni fa, non esisteva. Vi faccio un esempio: buona parte del mio lavoro passa da Twitter, un social network che ha aperto solo nel 2006 (e ci ha messo qualche anno per diffondersi).

Nel mio settore, l’esperto più anziano lavora da sette anni (un altro modo per dire che non esistono esperti). Per contro, le piattaforme su cui lavoro cambiano così velocemente che, anche se esistessero esperti, dopo pochi mesi le loro conoscenze sarebbero obsolete.

La comunicazione online è un tema volatile, etereo, cangiante: costringe a un continuo aggiornamento e a un discreto lavorìo mentale. Non si tratta di argomenti che si possono imparare, una volta per tutte, in un libro o all’università: per riuscire a far funzionare le cose sono molto più importanti il ragionamento e il buon senso.

Tutti i giorni mi chiedo a cosa serva la mia consulenza: perché i miei clienti non riescono a farlo da soli?

A scuola, nessuno ci insegna a essere curiosi nè a creare delle relazioni. Ma in questo momento queste sono due capacità fondamentali per sopravvivere in un contesto che cambia molto velocemente.

In un periodo di transizione, quale quello attuale, in cui gli strumenti per comunicare cambiano più velocemente degli utilizzatori finali, le aziende fanno fatica ad adattarsi pur intuendone le potenzialità.

La colpa non può essere dei social network: sono pensati in modo da poter essere utilizzati da un quattordicenne (e di fatti i quattordicenni ne usano in abbondanza, ma non usano gli stessi dei loro genitori). Non si tratta nemmeno di una questione anagrafica: l’inettitudine verso il digitale è diffusa a prescindere dall’età.

La mia curiosità sui social-scettici e i tecno-impediti mi ha portato a una più attenta analisi: sono ovunque. Raffinati redattori di importanti case editrici che rifiutano di avere un account su Facebook. Direttori marketing che hanno paura dei commenti negativi sui prodotti delle loro aziende. Curatori museali che bollano il web, tout court, come una perdita di tempo. Stimati professionisti che rifiutano di usare internet per tenersi aggiornati. Senza contare i candidati stagisti che ammettono candidamente di non leggere blog, di non possedere un profilo su Linkedin, di non avere internet a casa.

Da cosa dipende questa pigrizia mentale, questo neo-luddismo che impedisce alle persone di sfruttare questi strumenti? Temo che al principio di tutto ci sia la scuola, intesa come luogo di formazione e apprendimento.

La formazione accademica ci insegna ad approfondire un singolo argomento in modo verticale e specialistico, fino a diventarne esperti. Temo che, da solo, questo approccio sia obsoleto e dannoso. Quello di cui abbiamo bisogno è essere capaci di cercare e saper tracciare delle connessioni. Fare collegamenti critici tra gli argomenti o collegamenti tra le persone. Non c’è differenza tra virtuale e reale: i legami che stringiamo online non sono diversi da quelli “In Real Life”.

Immagino che questi concetti possano sembrare banali. Io ci ho messo molto a capirli, perchè il mondo in cui sono cresciuto non era così.

Quando sono nato io, internet non c’era. Ma per fortuna quelli come me sono in estinzione.

Idee rifiutate

Una versione extended di questo post è su Virtualeco

Spendo tanto tempo a cercare delle idee e proporle a dei clienti. A volte vengono semplicemente rifiutate, altre volte ignorate. Le idee che sopravvivono sono, forse, l’1% – ed è parte della selezione naturale.

In questi anni i clienti hanno rifiutato un sacco di idee che a me sembravano sensate, tra cui un gioco multiplayer in cui devi friggere più calamari di tutti gli altri giocatori, un contest di freestyle rap per promuovere un dizionario, un gioco che regala dei formaggi in modo più o meno random a chi fa delle cose. Secondo me erano idee abbastanza buone, ma non sono sopravvissute.

Alla fine ho capito che buone idee sono una cosa pessima, se ce le hai al momento sbagliato. In un processo creativo avere una buona idea blocca il processo (troppo presto, a volte). A volte, una buona idea che arriva troppo presto può essere il sintomo che un’autorità nel gruppo riesce a imporre la sua idea, o del fatto che si sta accettando un pensiero comune o un pensiero pregresso. Per questo motivo le buone idee vanno tenute da parte e accantonate per un po’, e andrebbero presentate all’esterno solo quando tutti sono d’accordo. Presentare un’idea all’esterno, se l’idea non è ancora pronta del tutto, può avere un effetto contrario: può contribuire a far scartare un’idea buona.

Le cattive idee sono una cosa buona. Prima di tutto perchè suscitano delle reazioni, anche avverse, e contribuiscono a creare una discussione. Si crea quel momento in cui tutti abbassano le difese e si sentono in grado di generare nuove idee: tanto, per quanto cattive siano, non saranno mai pessime come la prima idea.

Le idee non si possono proteggere (non c’è copyright sulle idee, ma solo sulla loro implementazione), anche se un sacco di gente cerca di nasconderle, di metterle al sicuro, di blindarle. È una cazzata: una buona idea, da sola, non serve a nulla. Le idee hanno bisogno di essere implementate.

Cerco di averne il più possibile (in media, ne ho pochissime). Ma quando le ho, le regalo: penso che scambiarle sia una cosa buona. E non perchè “se io ti dò un’idea, entrambi abbiamo un’idea”, ma perchè spero che il mio interlocutore faccia a pezzi le mie idee: è l’unico modo per testarle. Oltre alla ghigliottina definitiva: presentarle al cliente.

Non ci sono biblioteche per gli ebooks

Una riflessione veloce che parte da questo post di James Bridle, sull’assenza di vere biblioteche per gli ebooks.

In Italia le biblioteche hanno il diritto di prestare i libri a titolo gratuito, secondo la legge sul diritto d’autore (vedi qui). La legge dice che possono prestare gli originali: è un principio che protegge il pubblico e garantisce l’accesso alla cultura da parte di tutti.

Curiosamente però, se proviamo ad applicare questo principio agli ebook abbiamo un paradosso. Da un lato, permettere a tutti di leggere gli ebook (in digitale), costruendo una biblioteca che assomigli più all’App Store che a una libreria, sarebbe infinitamente comodo e funzionale. Dall’altro lato è impossibile: una biblioteca di questo tipo, che permetta l’accesso a infiniti materiali digitali, renderebbe inutili tutti i negozi esistenti di ebook (e manderebbe a gambe all’aria l’intero settore editoriale, nella forma in cui lo conosciamo oggi).

Online, quello che si avvicina di più al concetto di biblioteca online, dopo la chiusura definitiva di Gigapedia.org, è aaaaarg.org, una piattaforma ampiamente illecita. Il sito che più si avvicina a un’emeroteca è Avaxhome, a cui Mondadori ha fatto causa lo scorso novembre.

In questo momento i produttori di contenuti hanno un vantaggio (tecnologico e legale) nei confronti del bene pubblico (il diritto ad accedere alla cultura, liberamente), ma tutti i tentativi di ristabilire l’equilibrio avrebbero un impatto negativo sul mercato.