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Quanto vale la tua bandiera? Advertising e prostituzione dei diritti sociali

“Il conflitto non è una merce.
La merce invece no,
la merce è soprattutto conflitto.”

Questa fortunata citazione di Andrea Natella è stata un punto fermo per molto tempo, in tutti i miei ragionamenti sulla comunicazione.

Sono ancora convinto che sia così: il conflitto, in quanto tale, non è ancora riducibile a un prodotto, per fortuna.
Però c’è un problema.
La nascita della controcultura, la contrapposizione tra una cultura “mainstream” e l’esistenza di molte nicchie, crea un fortissimo senso di appartenenza. E il senso di appartenenza ha bisogno di simboli, di oggetti, di feticci. Un esempio: gli hippie hanno bisogno dei simboli della pace e i punk generano, inconsapevolmente, un buon mercato per le spille da balia. Insomma, la controcultura aiuta a vendere.

Un amico mi ha mostrato questa campagna di Honey Maid e ha dato il via a questa mia riflessione.
Prendetevi un minuto per guardare il video.

La campagna è bellissima e commuovente.
Lo spot fa leva su quelle che gli americani considerano delle “minoranze” (i gay, le famiglie interraziali e – a quanto pare – i punk rocker) con lo scopo dichiarato di mostrare la famiglia contemporanea e con quello, non dichiarato, di far discutere.
Ci riescono. Gli utenti coprono Honey Maid di insulti variamente razzisti e omofobi.
L’azienda capovolge l’operazione, con un’overdose di buonismo americano che mi fa venire il diabete.

Questo è il mio dubbio: a chi giova questo mix?
L’azienda sta sacrificando il tema dei diritti civili, per raggiungere delle finalità di marketing (vendere più biscotti)?
Oppure, al contrario, la comunicazione commerciale ha – come effetto collaterale e positivo – il fatto di portare visibilità a un tema sociale, caro all’azienda?

Personalmente sono diffidente nei confronti delle aziende. Ho imparato che le aziende hanno una sola finalità: il profitto. Tutto il resto è collaterale.
La mia impressione è che Honey Maid stia immolando la causa delle unioni omosessuali per vendere più biscotti.

A pochi giorni di distanza, Findus manda in onda uno spot ancora più focalizzato sulle coppie gay. Nel caso del nuovo spot dei 4 salti in padella, la “sorpresa” di cui si parla nello spot è proprio il coming out del protagonista, Luca. “Mamma, Gianni non è solo il mio coinquilino. È il mio compagno”. Il primo caso assoluto di un coming out in una pubblicità.

Una strategia di comunicazione, quella di Findus, in cui l’omosessualità serve solo ad attirare l’attenzione, a far discutere, a far parlare. Soprattutto in un paese in cui “Luca era gay” arriva in finale a Sanremo (Luca, come il protagonista dello spot) e lo scivolone di Guido Barilla fa discutere per mesi.
Era meglio quando le pubblicità non mi facevano queste sorprese.

Mi sono chiesto se ci sono altri casi del genere, in cui minoranze, diritti civili o elementi della controcultura vengono immolati come driver dell’attenzione.

Il primo che mi è venuto in mente è un viral: Mark Ecko finge di scrivere “still free” sull’Air Force One, indisturbato. È un caso interessante, di cui parla anche Mirko Pallera in Create (un libro bellissimo, che però dà un’analisi un po’ alla cazzo di questo video). Mark Ecko è un artista e creatore di diversi brand. Tra le altre cose, ha sviluppato un videogioco sui graffiti.

Mark Ecko sacrifica i graffiti per attirare l’attenzione e per vendere più copie del videogame. Inganna lo spettatore, facendogli credere che l’azione sia vera. Sfrutta il linguaggio del writing illegale e attira su di sè i valori, deliziosamente controculturali e underground, del fenomeno.
Cosa pensano i writer di Mark Ecko?

“[…] Stop now and leave graffiti to the graffiti writers.–
Now fuck off.”

Tutto sommato, la sottocultura dei graffiti è poca cosa, da sacrificare, rispetto alle battaglie etiche degli omosessuali e delle minoranze etniche.

Di recente, il giocatore di calcio Daniel Alves, mentre batteva una rimessa laterale, si è visto lanciare una banana da uno spettatore. Senza fare una piega l’ha sbucciata e – platealmente – l’ha mangiata.
L’azione ha generato un’ondata di imitatori che, su tutti i social network, si sono fatti riprendere mangiando banane, al grido di #somostodosmacacos. Indimenticabile la scena di Borghezio che ne mangia una in diretta televisiva.

borghezio-a-roma
Ecco, quest’azione era pianificata dall’agenzia di comunicazione di Neymar insieme all’agenzia publicitaria Laducca.
In questo caso, il gioco funziona al contrario: il giocatore ci fa credere che un gesto sia spontaneo e fa partire una campagna virale, ma non vuole vendere niente. Il fine è benefico e (forse) universalmente riconosciuto come positivo: l’antirazzismo.

Mi fa pensare a Suor Cristina che dirotta i minuti finali di The Voice Italia per recitare il padre nostro.
Ecco, il problema per me è questo: la pubblicità e la propaganda dovrebbero essere dichiarate. Sia che stiamo vendendo i biscotti, sia che stiamo vendendo Gesù.

Alves e Suor Cristina mi sembrano, tutto sommato, animati da finalità discutibili ma benevole.
Un caso che mi sembra più strano è Pif.

Pif si presta come testimonial di una campagna TIM in cui delle attività moderatamente illegali (guerrilla gardening, tango illegal) sono un pretesto per usare gli sms.
Anche in questo caso, i valori – seppur minimi – di protesta di una community come quella del guerrilla gardening vengono prostituiti per attirare l’attenzione su un prodotto.
Pif, da parte sua, si ripara la coscienza dicendo che userà i proventi per creare un museo dell’antimafia.

Il caso sicuramente più inquietante è quello delle Femen, attiviste ucraine famose per utilizzare il proprio corpo svestito per attirare l’attenzione su temi di utilità sociale.
A un certo punto, si scopre che ricevono uno stipendio fisso da una grossa agenzia pubblicitaria. Vabbè, fino a qui.
La notizia che mi lascia veramente sconcertato è il fatto che l’azione che mettono in scena a Istanbul venga effettivamente sponsorizzata da un’azienda che produce lingerie, Suwen  .
È particolarmente grave, perchè in questo caso è la protesta che viene sacrificata, per vendere le mutande (o, forse, le mutande supportano la protesta?).

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La forza di un’azione politica sta proprio nell’assolutezza degli intenti. Chi protesta fa quello, ha un obiettivo solo. Non si ferma a vendere ghiaccioli, mentre porta uno striscione.

E invece le Femen lasciano che ci sia questa confusione tra protesta e attività commerciale.
Una commistione che, inevitabilmente, indebolisce il loro messaggio: si stanno battendo per i diritti delle donne o stanno fatturando come testimonial di un produttore di mutande col pizzo? Questo dubbio, questa doppiezza, sposta l’attenzione dalla loro attività.
Contemporaneamente, mina alla base la credibilità di tutte le proteste.

Ed ecco che il conflitto, magicamente, diventa una merce.
E io non so più in cosa credere.
Andrò in piazza a sventolare dei biscotti.

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Note 
I miei riferimenti per scrivere questo sono stati Guerrigliamarketing, Heat e Potter, Naomi Klein, AdAge.
In origine avevo scritto questo post per Doppiozero ma poi avevo fretta e me lo sono pubblicato da solo. Se poi mi vorranno ancora bene lo pubblicherò anche lì.