Testo apparso sul catalogo Only For Fame (Collective Exhibition),pubblicato in proprio, Osnago (Mi), 2008.
[Grazie a Simona Bartolena, Sara Allevi, Michele Brivio e 247design]
Free* painting
* In cui “free” significa “gratis”, come in “free beer”.
Le firme, le scritte, i graffiti sono così onnipresenti sui muri delle metropoli contemporanee che sembra inutile scriverne e raccontarli per iscritto: un’attenta passeggiata in città sarebbe ben più istruttiva di qualunque testo.
Eppure, l’ostilità dei media e dei cittadini perbene, infuocati in una perenne guerra a favore di un monocromo grigio, spinge scrittori ed editori a sprecare pagine per inquadrare, descrivere, analizzare e incanalare un fenomeno di cui abbiamo una sola certezza: è assolutamente indelebile.
Dalla fine dei Sessanta sono stati innumerevoli i tentativi di soffocare il fenomeno, di disinfestare il singolo deposito ferroviario, imprigionare un writer, riportare una città alla gloriosa tinta unita neoclassica. Tentativi spesso vacui, incapaci di trattenere un’idea di fondo, che probabilmente è inarrestabile nel breve periodo.
L’idea di fondo di cui parlo non è solo scegliere un nome, una firma, e coniugarla ossessivamente e con stile su muri, treni e tutto quanto si muova. Il concetto sotteso al writing va ben oltre: lo spazio pubblico è di chi se lo prende. A suon di dollaroni, come fanno gli inserzionisti pubblicitari che colpiscono cartelloni, mezzi pubblici, pareti, pali, marciapiedi, pavimenti, tunnel della metro. O a suon di raid notturni da cinque minuti, con un budget di pochi euro e una propensione al rischio un po’ più alta, come fanno tutti quei ragazzi che colpiscono mezzi pubblici, pareti, marciapiedi e tunnel della metro.
Di più: è possibile riempire lo spazio scrivendo il proprio nome, senza pubblicizzare un prodotto o un partito, ma promuovendo solo ed esclusivamente se stessi, le proprie lettere e il proprio stile. Semplicemente, perchè si ha voglia di scrivere.
Non è una novità il fatto che writing e pubblicità si influenzino a vicenda: i graffiti replicano esattamente i metodi e le tecniche del branding, ripetendo un nome, un marchio, in modo serialmente ossessivo, ricercando i posti con maggiore visibilità, creando uno stile riconoscibile.
Di ritorno, guerrilla e street marketing si ispirano pesantemente alle tecniche dei writer, agendo in luoghi illegali, utilizzando spray e stencil ma, soprattutto, eludendo le regole della società civile (come se ci fosse bisogno di ulteriori affissioni abusive).
La ri-appropriazione dello spazio pubblico da parte dei writer (spesso inconsapevole) è di per sè un’idea dirompente, che ha aperto le porte a un radicale cambiamento di paradigma e ha fatto cadere (giustamente o ingiustamente) molte barriere nei confronti della proprietà privata: le facciate dei palazzi, anche quelli privati, fanno parte delle spazio pubblico.
Bastano due spray e una manciata di secondi per personalizzare quello spazio, senza bisogno di alcun permesso. È possibile interagire sullo spazio che ci circonda, modificarlo, forse cambiarlo per sempre, portando solo il proprio stile e la propria voglia di scrivere.
Naturalmente alcuni spazi sono più difficili, più repellenti nei confronti della disordinata e cacofonica invasione di bombing e tag. Il centrocittà, le scintillanti sedi delle aziende più grandi e i treni ritornano al colore originario in un tempo incredibilmente breve: l’immagine che questi luoghi devono comunicare è rigidamente imposta(ta), non ammette impreviste variazioni.
Nelle zone centrali, firme e throw up sono considerati deturpamento, imbrattamento, vandalismo: diminuiscono e impoveriscano il valore del supporto su cui sono applicati, lo fanno sembrare una periferia.
È un paradosso, perchè nelle zone periferiche e nelle città più piccole (vedi Bovisa, vedi Osnago) il writing viene utilizzato per valorizzare delle superfici brutte, per recuperare una zona disagiata, per dimostrare che esiste una potenzialità creativa da valorizzare. Addirittura, amministrazioni comunali e organizzazioni private sono disposte a pagare per avere i graffiti – gli stessi graffiti che, altrovunque, si paga per rimuovere.
E che non si provi a inventare una distinzione tra graffiti buoni e graffiti cattivi, tra graffiti d’arte e orribili scarabocchi, tra belle scrittone colorate e brutte scrittacce colorate. È una distinzione semplice e immediata quanto errata, falsa, funzionale solo a una strumentalizzazione “politica” in senso lato. Il writing è un fenomeno complesso e multiforme, che comprende la tag (la “semplice” firma, un concentrato di stille nient’affatto semplice) e il complesso pezzo da hall of fame (magari enorme ed elaborato) che strizza l’occhio all’estetica comune.
Sono le due facce della stessa moneta: non è possibile scinderle, sono legate in modo indissolubile.
Promuovere il writing legale (quelle meravigliose opere di arte pubblica che sono le hall of fame, le mostre d’arte che coinvolgono writer e street artist, le performance nei negozi di abbigliamento, le conferenze, le tavole rotonde, le associazioni di writer uniti dalla concreta opportunità di monetizzare la propria passione) significa, direttamente e immediatamente, ispirare una generazione di ragazzini (fino a quarant’anni) che devasteranno la città.
E d’altra parte, senza le tag, senza i treni dipinti, senza le generazioni che imperterrite escono ogni notte a farsi i cazzi propri in una città che non li vorrebbe, il writing perderebbe tutta la sua magica aura di fenomeno ggiovane e inarrestabile, la sua patina di misterioso ed ermetico fenomeno notturno. In una parola, la sua coolness: ciò che lo rende tanto interessante agli occhi di MTV, dei produttori di zainetti e di quadernoni, delle aziende automobilistiche e, in ultima analisi, delle amministrazioni comunali e delle organizzazioni private che promuovono mostre e hall of fame. Non è un caso che proprio dal bombing illegale provengano tanti stili riutilizzati nelle grafiche di MTV: grafica nuova e lettering originali nascono spesso in strada, dove non c’è un committente che stabilisca dei limiti o imponga un gusto univoco.
Il cerchio si chiude: il lato legale, virtuoso, accettabile di questo fenomeno si alimenta dalla prorompente forza del writing illegale. E parallelamente le nuove generazioni, magari, si avvicinano allo sport estremo del trainbombing dopo aver visto una mostra d’arte, con le tele dei writer che, vuoi per età, vuoi per attitudine, hanno deciso di praticare il lato del fenomeno più facile da spiegare alla mamma, quello artistico.
È normale che, con il passare del tempo, il mercato elabori e assorba una sottocultura. È successo agli hippie negli anni Sessanta, quando le collane con il simbolo della pace si trovavano su ogni bancarella. È successo al grunge, quando Kurt Kobain apparse in copertina sulla rivista musicale che odiava, Rolling Stones – indossare una maglietta con la scritta “corporate rock magazines still suck” non lo salvò dal vendere milioni di copie del primo disco dei Nirvana, Bleach. Il punk, il rap, la rave culture: tutti profondamente modificati (in modo differente) da un successo commerciale che riscuote i suoi crediti, facendo convergere verso un vendibile pop qualunque coniugazione musicale estrema.
I graffiti non sono certo esenti né dal successo commerciale né dall’annacquamento che ne deriva. Chiedete a Phase II cosa ne pensava di Keith Haring, un bianco borghese che disegnava personaggi figurativi coi gessetti, mentre i neri in metropolitana rischiavano la vita per tracciare lettere incomprensibili.
Eppure, ciò che stupisce della sottocultura collegata al graffiti writing è proprio la sua frangia più dura, più coriacea, che riesce a resistere a qualunque tipo di oppressione e repressione. Se la città cancella i muri, i writer scrivono sui marciapiedi e sui furgoni privati. L’ATM pulisce i vetri della metropolitana, e i ragazzi li incidono con la pietrina o scrivono con l’acido fluoridrico. Trenitalia sperpera due milioni di euro l’anno per tenere i treni bianchi, ma ogni anno vengono disegnati migliaia di pannelli e – per un periodo – i writer hanno rimosso le pellicole protettive col taglierino.
A quarant’anni dalla nascita dell’idea originaria, lo spazio pubblico è ancora contaminato. Galleristi, artisti, buffer, associazioni, scrittori (come me) mangiano un piatto che esiste solo ed esclusivamente grazie alla potente spinta propulsiva del writing illegale, al sogno di stile e distruzione che spinge ogni notte migliaia di ragazzi a uscire e dipingere, per se stessi e per tutti, gratis.