Bovisa in Linea – reclaim your line
Testo contenuto nel libro Progetto Bovisa, in uscita per il Politecnico di Milano
Il rapporto tra i writer e le istituzioni a Milano ha attraversato diverse fasi, spesso controverse e contradditorie: sebbene il collegamento tra la capitale italiana dell’advertising e il marketing di se stessi operato dai writer sia lampante, raramente le istituzioni comunali hanno cercato di approfondire i modi e l’evoluzione di questo fenomeno. I graffiti sono stati per anni uno spauracchio, una patologia difficile da debellare, un nemico immaginario che spunta dal cappello magico in tempi di campagna elettorale.
In molti riescono a lucrare sull’atto vandalico: fornitori di pennarelli e colori, pulitori, imbianchini, produttori di vernici protettive e vigilantes assortiti, per non fare menzione del mercato dell’arte e del merchandising, in una fase di piena maturità. La gran parte della cittadinanza, invece, li soffre in modo passivo, o almeno così vuol dare a intendere la stampa: in realtà, l’unica indagine sulla percezione dei graffiti, realizzata da Eurispes (>>), dimostra come una percentuale importante del campione intervistato (soprattutto i giovani) apprezzi e ami i muri dipinti.
Il fatto che siano difficili da capire è una giustificazione tanto diffusa quanto priva di fondamento. Certo, è difficile interpretare le intricate lettere del wildstyle, ma non più che interpretare un codice del Cinquecento. E le lettere dei writer più presenti in città sono spesso leggibilissime, frutto questo di una programmata evoluzione dello stile: l’uso dello stampatello consente di diventare famosi anche tra i non addetti, mediante la riproduzione del marchio fino alla saturazione dello spazio cognitivo. La pubblicità, alfine, ha insegnato qualcosa ai nostri ragazzi!
Probabilmente, ciò che è veramente difficile comprendere dei graffiti è l’intento: l’intenzione artistica è il più delle volte assente, quantomeno nel bombing da strada. E in ogni caso, l’arte da sola difficilmente giustifica i rischi che un writer mediamente corre (stiamo parlando di multe, denunce penali e, in casi estremi, anche qualche proiettile vagante).
Nel mix di obiettivi di un writer giocano un ruolo importante quanto vario la fama, il riconoscimento all’interno di una cerchia di pari, la ricerca di una superiorità assoluta (lo status di king) valutata secondo alcuni parametri concretissimi e riconoscibili – lo stile, la quantità, le dimensioni, il rischio. È una sfida, una gara, ciò che il documentarista Henry Chalfant ha giustamente chiamato Style Wars, già nel 1983.
Risulterà evidente da queste righe che il pubblico d’elezione dei writer sono gli altri writer. La cerchia è autoreferenziale, un circuito chiuso di patiti delle lettere in estrema competizione per lo spazio e per lo stile.
Va da sé che il coefficiente di rischio sia uno dei fattori dominanti: l’impatto di un pezzo è dato dalla sua posizione, lo straniamento provocato da un graffito non è dato solo dal lettering, quanto dall’illegalità del pezzo. Quella macchia di colore, lì, su quel treno o lungo quella linea ferroviaria, non dovrebbe esserci e invece c’è: testimonia un’insensatezza spontanea, un gesto gratuito di abbellimentoabbruttimento che coinvolge tutti ma non chiede a nessuno, né permessi né risorse.
È questo il motivo per cui, per molti writer, i muri legali hanno poco senso.
Gli spazi concessi ospitano graffiti senza punta, senza verve: ordinati e preparati, anziché inattesi e prepotenti, perdono gran parte della loro efficacia, sono nulla in confronto a un treno o a una metropolitana dipinta illegalmente.
Eppure, i motivi per concedere comunque degli spazi ci sono e sono tanti. Bovisa in Linea vuole essere un tributo a chi quei muri li ha vissuti, di notte, con sudore, rischio e fatica. Un omaggio a chi è riuscito a dare il meglio su ogni superficie – liscia o gibbosa, concava e convessa, senza luce e con i treni che passano. E insieme vuole essere un invito a elevare ancora di più il livello qualitativo, a dedicare più tempo e passione – per una volta con il supporto costruttivo di un’istituzione come la Triennale – a una disciplina che può dare dei risultati incredibili a livello estetico e ha avuto un’influenza tanto ampia quanto sottovalutata sulla grafica che ci circonda.
I muri legali non servono ai writer (questo è evidente: se li prendono da soli, come dimostra la linea Cadorna-Bovisa, completamente dipinta già prima dell’evento), servono a tutti gli altri: sono utili per i giornalisti, costretti in qualche modo a confrontarsi con un’anomalia e ad approfondire l’argomento, servono alla gente comune, spinta a notare la nuova veste delle linea ferroviaria e a interrogarsi sul senso di ciò che succede e infine serve ai ragazzi milanesi, che potranno godere di opere di qualità eccellente nonostante le devastanti campagne censorie delle scorse amministrazioni comunali, che hanno fatto tabula rasa di due decadi di storia del writing a Milano.
La speranza è che l’evento faccia riflettere sul dirompente potere creativo che è collegato a questo fenomeno (più di cento ragazzi, che collaborano per realizzare un unico enorme intervento): una forza d’ingegno il più delle volte repressa e soffocata dalle istituzioni, e che qui per la prima volta viene avallata e stimolata.
L’inefficacia delle campagne repressive dovrebbe essere evidente, le esperienze internazionali lo dimostrano. New York, la Mecca dei graffiti, ha iniziato la lotta al writing nel 1978 e ancora oggi spende 5 milioni di dollari all’anno per pulire i graffiti e mantenere un’apposita squadra di 68 agenti: nonostante questo, la metropolitana subisce circa 4.000 attacchi vandalici all’anno.
A Parigi le misure anti-graffiti sono arrivate addirittura a intaccare la libertà di stampa, impedendo la pubblicazione di alcune riviste specializzate. I graffiti cancellati dai muri della città riappaiono sui marciapiedi, oppure al di sopra dei quattro metri di altezza, o sui mezzi di trasporto privati.
A Berlino, anche dopo la demenziale decisione di perseguire i writer con gli elicotteri, il fenomeno è in crescita e raggiunge livelli di vandalismo e violenza decisamente elevati.
Anche le misure varate, a più riprese, dal Comune di Milano sono state vane (basti ricordare la “taglia sui writer” introdotta da Albertini nel ’98) e i risultati non sono quelli sperati, si direbbe guardando le pareti della città. Né credo che una vandal squad formata da poliziotti killer, sulla scorta di quanto è avvenuto in altre città lombarde, possa risolvere il “problema” – politiche restrittive e persecutorie, se mai, riducono il tempo a disposizione per realizzare l’opera e il risultato naturale è un peggioramento del livello qualitativo medio.
Bovisa in Linea è l’inizio di un dialogo tra le istituzioni e la città, e in particolare con quella parte di città sommersa ma creativa, difficile da raggiungere ma iperattiva. Difficilmente servirà a limitare un’attitudine al vandalismo perpetuata ormai da trent’anni, ma la speranza è che si possa aumentare il livello di consapevolezza, da entrambi i lati. Da un lato, Milano non è New York: i luoghi sensibili sono moltissimi (siti archeologici, architettonici, artistici) e i più capiscono perfettamente l’insensatezza di firmare chiese e monumenti. D’altro canto, il writing fa ormai parte del paesaggio urbano, ignorarlo e cercare di debellarlo completamente è un’impresa titanica e poco sensata, irrispettosa della naturale evoluzione della città. Lamentarsi dell’erosione dello spazio pubblico da parte della pubblicità è fin troppo facile: ci si limiterà a osservare che le metropoli moderne sono sempre state sporche, inquinate e che la sporcizia rappresentata dalle scritte sui muri non è certo la peggiore (soprattutto se paragonata ad altre forme di inquinamento visivo – se non di inquinamento tout court). La selva di firme e bombing ci sembra, al contrario, un fortissimo indicatore di un’attività intellettuale, per quanto vandalica e marginale, e di una disposizione a conquistare degli spazi, di un’aggressività positiva coniugata a una ricerca stilistica che va stimolata e lodata – non soffocata.
Il fatto che l’attuale amministrazione comunale abbia deciso di dedicare dello spazio e delle risorse a questo tipo di energie ci pare sintomo di un’inedita attenzione verso la creatività spontanea e un primo passo per valorizzare il fenomeno nel contesto di una strategia di apertura e di analisi, anziché di chiusura e di cieca repressione.
Speriamo che Milano smetta di aspirare a uno stato di pulizia che è solamente superficiale e accetti di essere una città sporca, perché per tutte le attività creative e lavorative è necessario, in qualche modo, sporcarsi le mani.