articolo scritto con Fabrizio Martire, apparso in origine su Subvertising
I muri sono, da sempre, luogo d’elezione della propaganda politica. Non sorprende che la street art commenti, critichi o incoraggi l’agenda politica. È successo più volte in passato, sia in Italia che all’estero, dai murales politici messicani alle frasi di protesta nell’Italia degli anni di Piombo.
Nell’attuale campagna elettorale americana, però, l’utilizzo dell’arte sta prendendo una piega diversa. La promozione delle pratiche artistiche e il supporto al National Endowment for the Arts (il fondo statunitense che, a livello federale, promuove le arti figurative e lo spettacolo) sono tra i primi punti della campagna elettorale di Barack Obama: forse è proprio questa posizione, insieme al resto del programma di quello che si presenta come homo novus della politica americana, che ha suscitato l’azione e l’impegno politico da parte di molti artisti. Anche perché John McCain, sugli stessi argomenti, ha sempre preferito glissare con eleganza: i repubblicani, alla pittura preferiscono l’industria pesante.
La street art costituisce un medium innovativo per la propaganda, in grado forse di attirare l’attenzione più dei billboard tradizionali. A partire da Billi Kid, direttamente dal Connecticut con poster e secchio di colla, che ha ritratto Sarah Palin, braccio destro di McCain, come una forzuta energumena pompata di steroidi. Billi Kid contemporaneamente raccoglie fondi da devolvere alla campagna di Obama (di cui si dichiara un aperto sostenitore), mettendo all’asta sticker, stencil e poster.
E che dire del ritratto di Abrahm Obama realizzato dal pop-aganda artist Ron English, un mash-up tra il volto di Abramo Lincoln e quello del candidato democratico? O dei poster a favore dei democratici realizzati dall’artista Scot Lefavor?
Un’opera però, per diffusione e potenza, ha surclassato tutte le precedenti. Si tratta del ritratto di Obama realizzato da Shepard “Obey the Giant” Fairey, probabilmente uno degli street artist più noti al mondo. Si tratta di una stampa a tiratura limitata, prodotta in tre versioni (Hope, certamente la più famosa, Progress e Change) e venduta sul sito dell’artista per 15 dollari.
La tiratura di 3.000 copie è andata esaurita in poche ore, e già il giorno dopo la prima vendita, le serigrafie si trovavano su ebay a più di 2.000 dollari – ma questo è solo uno degli indicatori del successo del lavoro di Obey, e non certo il migliore. Il poster, ripreso anche dalla campagna ufficiale di Obama, ha fatto il giro del mondo, costituendo di fatto l’immagine ufficiale della campagna elettorale. Shepard Fairey è consapevole del potere comunicativo del proprio lavoro e ha dichiarato, in una recente intervista, di aver colmato consapevolmente un gap di immagine nella comunicazione di Obama.
La prova della viralità dei poster di Obey (come sempre, incollati in moltissime città americane, illegalmente, in luoghi visibilissimi e in formato gigante) è la quantità di remix che hanno fatto seguito al ritratto, ormai diventato un’icona – quasi al pari del ritratto del Che eseguito da Alberto Korda.
Tra i numerosi imitatori, quelli che usano l’arma dell’ironia contro Sarah Palin sono di certo la maggioranza. Il progetto “A frightening prospect” (un volto pauroso / una prospettiva paurosa) la rappresenta con un volto diabolico, sostituendo la parola “Hope” con “Vote”. Di simile fattura il poster “Nope”, che ricalca fedelmente l’opera di Shepard Fairey.
Di sicuro il ritratto di Obey, anche grazie ai molti imitatori, ha avuto un ruolo molto importante per la campagna presidenziale statunitense, dando unità al messaggio politico e contribuendo alla creazione del consenso (forse ancor di più a livello internazionale, che a livello americano). ¬
Ma lo stesso Obey avverte: “Non votate Obama solo perché vi piacciono i miei poster. Leggete il suo programma prima di votarlo”.
Il timore è che la street art – ormai onnipresente e multi utilizzata in ambito commerciale e politico – possa ridursi a essere esclusivamente l’ennesima forma di advertising e diventare così comune da non essere nemmeno notata, perdere insomma tutto il suo vigore e risultare indistinguibile dalle affissioni pubblicitarie che critica(va). D’altra parte, dopo Andy Warhol, è sempre più difficile distinguere tra arte, propaganda e pubblicità – e probabilmente questi confini si fanno sempre meno interessanti.